Anna Lombroso per Il Simplicissimus

Secondo Hannah Arendt la “grande sventura” comincia quando il politico si privatizza e il privato si politicizza. Per questo (non parliamo qui della sua infausta e acritica passione per Heidegger) Arendt diffida dell’irruzione dell’amore nell’azione civile e nella sfera pubblica. Nella sua vita,rivendica, non ha mai amato nessun popolo o collettività. Né la classe operaia, né nulla del genere. Ha amato i suoi amici. E la sola passione d’amore che ammise di aver conosciuta e nella quale credeva, era stata quella per le persone.
È vero anche Spinoza metteva in guardia dalle passioni,soprattutto quelle tristi che condizionano l’essere umano lo fanno cadere preda di pulsioni irrazionali ed emozionali che lo fanno indulgere alla delega e lo consegnano alla tirannide.
Ma da anni pensatori di tutte le latitudini ( in Italia,esemplarmente, Bodei) fanno invece i conti con il peso delle passioni e delle emozioni nella vita pubblica, nell’esercizio della politica, nei conflitti e nella loro soluzione o nel loro perpetuarsi. E ne rivalutano il carattere di componente fondamentale nella coesione sociale, nell’edificazione della democrazia, nella tutela del diritto di cittadinanza.
Pur “innamorata” della lucidità affilata di Arendt, con tutta la necessaria modestia, non avevo mai concordato su questo punto. Ho sempre provato un passionale trasporto leonino per l’umanità, mostrando una certa predilezione molto emotiva per certi suoi segmenti: diseredati, perseguitati,emarginati, sommersi e così via.
E per di più contro ogni ragionevole cautela ho amato il “mio” popolo. E ho sempre riposto in esso speranza aspettativa fiducia. Perché è la gente delle cinque giornate di Milano, delle quattro giornate di Napoli, della Repubblica romana, della Repubblica di Manin, della Resistenza e del Risorgimento. Un popolo paziente, disincantato, creativo, pasticcione, ma che poi ha risvegli che lo affrancano, lo riscattano. Un popolo che a un tratto sorprendentemente non “sopporta” più e ritrova solidarietà e condivisione e si riappropria della dignità.
Così è successo in passato. Ma temo che non si ripeta questo miracolo, non so se per la schiavitù mediatica, per l’immonda acquiescenza all’illegittimità, per la persuasione a modelli egoistici, per l’imposizione di riferimenti esistenziali improntati alla sopraffazione, al disprezzo di valori e ideali. Ed anche per una inquietante diffusa consuetudine – che ritrovo a volte anche in me – a una disillusa e accidiosa disperazione. Della quale siamo vittime ma soprattutto carnefici.
Ieri è morto di freddo un bambino nella piazza di una città luogo simbolico di una pingue e opulenta accoglienza e del loisir, il piacere della vita. Schiere di benpensanti indossano il cilicio caro alla Binetti e fanno ammenda. Un’ammenda pelosa come la carità, perché con la pietà fanno anche professione di appartenenza al mondo incomprensivo della normalità. Quello che i poveri li ama se sono rispettosi e dimessi umili e anche un po’ poveri di spirito come nella Storia della Morante, se rispettano le regole della miseria. E per quelle i clochard sono ammessi solo se sono pittoreschi, vestiti con i panni degli straccioni come charlot, coerenti con l’immaginario collettivo che li vuole visionari e poetici, e se poi hanno il pagliericcio pieno di dollari meglio.
In questi giorni si sente parlare continuamente di vergogna come se nel generale clima di indifferenza ne fossimo avidi. A me la vergogna fa ribrezzo come la pietà e le voglio sostituire con la compassione (dividere passioni e pene) e la responsabilità. Anche quella di non condannare all’invisibilità una parte del mondo, quelli che da quella parte del mondo arrivano qui e una parte sempre più estesa di italiani. Che sono diventati irregolari da rimuovere davanti ai quali passare in fretta senza guardarli in quella piazza dove i bambini non si perdono preferendo forse addormentarsi.