Anna Lombroso per il Simplicissimus
Pomigliano e Rosarno si somigliano. Sono due luoghi simbolici di un paese che ha perso qualcosa. Ma altri ce ne sono. Luoghi dove qualcuno ha perso il senso del lavoro: un mestiere antico o uno status legato a un ruolo produttivo scomparso in una repentina ristrutturazione industriale. O un’appartenenza consolidata in identità collettive obsolete e stravolte dall’irruzione potente e sradicante di nuovi flussi su un territorio reso irriconoscibile ai suoi abitanti messi alla prova dello spaesamento e dallo stravolgimento urbanistico. O come Ponticelli esemplare perché gravato da tutto il peso della povertà patologica del nostro Mezzogiorno.
E che in vari modi siamo stati tutti oggetto di una sottrazione. Per alcuni la privazione rìconcerne la speranza che li ha spinti qui da territori della fame, della miseria, della sopraffazione. Per alcuni riguarda privilegi considerati naturali e inalienabili. Per tutti si è spezzato qualcosa nel profondo alla radice di quelli che una volta si chiamavano sentimenti morali.
Il risentimento è diventato la cifra che connota i rapporti reciproci e soprattutto quelli con l’Altro. È un rancore ormai emerso che prende le sembianze della ferocia quando di rivolge verso il basso dove l’assetto sociale è più fragile sconnesso e vulnerabile, all’interno di un processo di regressione civile che si integra con una regressione sociale.
Sociologi illuminati lo definiscono malessere da perdita e lo hanno diagnosticato guardando ai naufraghi del fordismo, agli espulsi dai distretti dell’antica eccellenza, al bacino degli ex quadri tecnici della grande industria siderurgica che qualcuno ormai disegna come criceti in una gabbia confinata che corrono dietro a un lavoro dequalificato e a un fido bancario precario, malati di rancore e sperduti come dopo un’esplosione distruttiva.
Ma è malessere da perdita anche l’erosione di speranza e futuro che un anno fa caratterizzava le bande disperate di Rosarno colpite dalla determinazione con la quale abbiamo rovesciato i nostri diritti in strumenti di esclusione per gli altri, in una società di diseguali incuranti che l’unilateralità è la premessa dell’ingiustizia, della discriminazione, dell’altrui disumanizzazione.
Un anno fa e oggi. Solo che oggi abbiamo la drammatica consapevolezza, non tutti purtroppo, che
la riduzione della “socialità” che riguarda ogni ambito della vita di relazione e crea inimicizie ostilità e competizione in una spirale che distrugge l’interesse generale e i suoi capisaldi di legalità, imparzialità, disinteresse personale, colpisce anche nuovi pubblici resi fragili da crisi e malgoverno.
Che l’erosione del futuro incrementa il numero dei “senza speranza”, annoverando nella sua iniqua contabilità i nostri figli. Le ineguaglianze in risorse e opportunità di “domani”, di vita, di conoscenza, di speranza tra paesaggi umani del mondo molto troppo ricchi e quelli incomparabilmente più vasti della povertà della carestia si proiettano sulle generazioni future. Così oggi trattiamo come schiavi miliardi di contemporanei e condanniamo alla servitù, alla povertà, alla disperazione le generazioni future.
Esternalizzazione, precarizzazione, un mondo del lavoro alle corde fiaccato nel proprio orgoglio produttivo e nei diritti e nella dignità dei lavoratori, sono il vero volto di quella modernizzazione che piace a Marchionne, a Berlusconi e a Veltroni, ecumenicamente convinti da un processo nel quale si credeva di crescere e invece si declinava, in instabile periglioso equilibrio su un piano pericolosamente inclinato verso la fragilità e l’arretratezza dove l’equità è stata demonizzata alla stregua di una ideologia totalitaria, la dignità derisa alla stregua di un’emozione arcaica, la libertà condannata come pulsione insurrezionalista.