Quando sento parlare delle scarpe del giornalista, mi viene da sorridere, perché riesco ad immaginare solo le pantofole. Salvo qualche dovuta eccezione, il giornalismo italiano è una creatura di redazione che vive in una bolla fatta di dinamiche interne e di contatti esterni sottoposti alla logica del do ut des, quando va bene.

Quando poi leggo di Wikileaks contrapposto alle scarpe e per di più da uno dei pochi giornalisti che quelle scarpe le ha usate, come Emanuele  Giordana, il sorriso mi si spegne e mi chiedo che bisogno ci sia di sottolineare che Wikileaks non basta, anzi che quello non è nemmeno giornalismo, ma storia?

Certo che non basta, ovvio che non basta, scontato che i dispacci diplomatici, le segrete cose sono terreno per ricostruzioni che vanno oltre la cronaca, il racconto quotidiano. Ma qui c’è l’equivoco, Wikileaks è una rivoluzione per il sistema dell’informazione di cui il giornalismo è solo una parte, una parte che non viene messa in ombra, ma anzi stimolata. Proprio la possibilità di andare a fondo nelle cose, la possibilità di avere un sistema informativo orizzontale e non verticalizzato, può essere uno stimolo a togliere le pantofole e a indossare le scarpe, quanto meno amplia le possibilità di far conoscere. Esattamente il contrario di quanto Giordana paventa.

E poi la rivelazione di dinamiche rimaste in ombra non riguarda solo il passato, ma sopratutto il presente perché la rivelazione stessa cambia le cose. Certo, il giornalista verticalizzato e privo di scarpe, ha tutto da temere da Wikileaks, soprattutto ha da temere per la posizione di unico mediatore possibile e autorizzato tra i fatti e le notizie.

Mi chiedo ad esempio come mai la notizia delle confidenze di D’Alema sulla magistratura sia uscito sul Pais e non su un giornale italiano. Queste si che sono pantofole.