Anna Lombroso per il Simplicissimus

Chi meglio di Walter Veltroni detto er coca cola poteva incaricarsi di ricordarci dalle colonne del Corriere della Sera, che il sacrificio del presidente ucraino è compiuto anche a nostro nome per difendere quei valori  dell’Occidente, primo tra tutti quello fondamentale “costato tanto sangue, maturato tra le sofferenze di Auschwitz e dei gulag, capace di resistere ai muri e alle cortine di ferro: la libertà. La libertà di pensiero, di parola, di impresa, di stampa, di organizzazione politica e sindacale. La libertà culturale e quella religiosa. La libertà, sì anche quella, dei propri comportamenti sessuali, delle scelte di vita”.

Verrebbe voglia di essere puntigliosi per contestare punto per punto la pastorale,  a cominciare dall’incauto paragone tra Aushwitz (il più cinefilo dei politici crede che sia stata liberata dagli americani, come insegna il cantore della Costituzione retrocessa  a premio Strega 1947), topos allegorico dello sterminio definitivo di un popolo, dei “diversi”, rom, matti, dissidenti, handicappati,  e i gulag, presenti in tutte le latitudini, Guantanamo compresa, secondo la interpretazione dell’Europarlamento che equipara Gramsci a Rosemberg.

Per concludere con la salvaguardia del bene supremo della libertà, come viene esercitata nel nostro Paese grazie anche al partito che ha fondato sulle rovine prodotte dal tradimento e dall’abiura del ruolo storico di testimonianza e rappresentanza degli sfruttati, in prima fila nell’azione di demolizione dello stato sociale e di diritto, del lavoro, dell’istruzione, e di cancellazione delle garanzie e dei diritti conquistati grazie all’abnegazione di partigiani oggi paragonati disinvoltamente ai nerboruti nostalgici del Battaglione Azov, alle lotte dei lavoratori, al pensiero militante di intellettuali, quelli, pochi,  che si sono sottratti alla pressione dell’ideologia neoliberista.

Se un merito va alla potenza che ci ha colonizzato anche l’immaginario è quello di averci regalato alcuni memorabili film, ma più che un Altman o un Michael Moore ci vorrebbe Mel Brooks per girare il docufilm con le balle spaziali della pugnace propaganda interventista, con la Serracchiani che arruola i parlamentari pronti a morire per Kiev, con il riflessivo Fassino  che medita su una somministrazione graduale di Fly zone, con Letta per il quale il 24 febbraio è il nostro 11 settembre che impone di armarsi e armare una parte, peraltro già ben equipaggiata, per fermare il folle disegno di chi aspira a far crollare perfino con l’atomica la torre di principi e virtù civili del tandem Europa-Nato.

E d’altra parte parliamo di un ceto che ha introiettato il dogma  secondo il quale la pace si prepara e garantisce con la guerra, con le armi che rappresentano la voce più onerosa del nostro “bilancio”  sociale, da impiegare dentro e fuori i confini patri grazie alla replica su scala delle procedure dell’imperialismo e del colonialismo, mediante sfruttamento di popoli e risorse, sopraffazione dei deboli, discriminazioni per incrementare le disuguaglianze, repressione e censura delle voci critiche.

Basta pensare all’eclissi ingloriosa di uno dei cardini della weltanschauung europeista incarnata dal Manifesto di Ventotene.

Parlo di quella pace fondata sul riconoscimento di differenze che trovano una sintesi perfetta in una federazione di stati e popoli, che però  tante volte si è armata agli ordini del tracotante guardiano del mondo in compagne di esportazione di democrazia, di rafforzamento istituzionale, di aiuto umanitario, una delle quali dichiarata nel cuore del continente quando nel 1999 la Nato, e con essa l’Italia con D’Alema al governo, aggredì   la Jugoslavia di Milosevič, ormai ridotta alla sola Serbia, per rispondere al grido di dolore del Kosovo: 78 giorni di bombardamenti con 1.100 aerei, Usa e italiani, morti e lutti censurati e occultati in quanto remoti, estranei e barbari, a differenza degli ucraini che conosciamo per via di badanti e cameriere. E che sono così somiglianti e affini a noi da sopportare un governo fantoccio presieduto da un focoso burattino dello star system dell’avanspettacolo più trucido, indifferente alla sorte della sua gente che sacrifica in nome del suo delirio di onnipotenza e dei suoi interessi privati.

La verità è che come tutti i sistemi totalitari, anche quello vigente combina la narrazione delle sue magnifiche sorti progressive, economiche, tecnologiche, scientifiche, sociali con l’indole distruttiva  che trova la sua completa e perfetta concretizzazione nella guerra, l’unico modo che possiede, come ebbe a scrivere Keynes nel suo “Le conseguenze economiche della pace”, per sottoporre a una verifica  le potenzialità e  la pertinenza del suo assetto organizzativo, politico e istituzionale, uno stress test si direbbe oggi per saggiare le sue performance nel momento in cui “spinge al limite le sue capacità produttive”, finalizzate, a un tempo, alla distruzione anche catastrofica, ed alla desiderata ricostruzione, sia pure sulle rovine.

Da anni sentiamo raccontare che il capitalismo è posseduta da un incontrastabile istinto suicida, da anni ci accorgiamo che i popoli contro i quali è stata dichiarata la guerra di classe alla rovescia non sanno approfittarne e si prestano a farsi trascinare nel precipizio.

Basta pensare all’origine di questo conflitto al quale stiamo partecipando e contribuendo andando ben oltre le raccomandazione del comando supremo dell’impero, costituendoci come parte in causa e attore sul fronte di guerra, rivendicando con le parole e gli atti che non c’è alternativa all’interventismo militare per tutelare il diritto internazionale tante volte violato, oltraggiato, vilipeso, se prima dell’invasione la Russia aveva invitato gli Usa e la Nato a  negoziare    la questione ucraina nel quadro di un’ipotesi di accordo globale per la sicurezza in Europa, sulla base di un onorevole compromesso che avrebbe dovuto mettere fine all’accerchiamento missilistico e nucleare; se gli Stati Uniti e la Nato non solo hanno fatto carta straccia degli accordi di Minsk e prima anocra delle intese raggiunte in precedenza con Gorbaciov oggi desecretate grazie alle rivelazioni della stampa tedesca, ma hanno rifiutato sprezzantemente l’offerta, accelerando il processo di ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza per determinare il “fatto compiuto”.

Ormai siamo nelle mani di gente posseduta da un delirio senza ritorno: la sindrome del fatto compiuto ci ha già condannati con la gestione della pandemia che non può permettersi ripensamenti neppure quando ha ottenuto il risultato di creare disuguaglianze talmente profonde da essere irreversibili, discriminazioni così cruente da produrre fratture insanabili e danni irrevocabili. E adesso è probabile che ci sia spinti talmente avanti da far ritenere che la via negoziale possa essere impercorribile a meno che il folle zar, la fiera spietata che da bambina invece che col criceto si trastullava con i topacci di fogna, dimostri una ragionevolezza superiore ai rappresentanti delle illuminate democrazie occidentali, con la stessa lungimiranza che rivela rispettando i contratti di fornitura di gas per i combattenti sul sofà in tinello.

Assatanati di vedere il risultato delle loro demenziali prove di forza i nostri vigorosi combattenti per gli ideali della civiltà superiore dimostrano che c’è una motivazione ideologica e culturale non marginale dietro alla loro campagna di Russia. È quella di dimostrare che le rivoluzioni e il socialismo reale sono condannati al fallimento, che quando si rovescia il tavolo poi si torna in forma peggiorativa al punto di partenza, che gli sfruttati di ieri diventano gli sfruttatori di oggi e di domani imponendo un ordine più crudele e repressivo e che a pagare il prezzo dell’Utopia realizzata sono gli umili e i sottomessi, costretti a stare sotto il tallone di ferro di un altro tiranno, un altro satrapo, un altro zar che sostituisce le promesse di benessere, uguaglianza e  felicità con umiliazioni, ricatti, lacrime e sangue.

Tra le tante teorie cospirative che abbiamo dato per buone questa è di gran lunga la più turpe e vergognosa, perché  il suo intento è cancellare ogni visione di riscatto, ogni prospettiva di speranza, ogni senso di lealtà nei confronti di noi stessi e della nostra dignità di uomini.