Van_Gogh_Self-Portrait_with_Grey_Felt_Hat_1886-87_RijksmuseumC’ è da farsi andare di verso  la Notte Stellata o i girasoli, ma si sa che anche un genio può essere affossato da una congrega di mentecatti ed è accaduto al povero Van Gogh protagonista di un massacro all’americana attuato con la complicità di un pittore – regista e due sedicenti biografi, che se non fossero a stelle strisce non avrebbero raccolto che fischi e sberleffi. Il luogo di questa macelleria intellettuale è un film sul grande pittore olandese intitolato Van Gogh sulla soglia dell’eternità con la tipica retorica infantile tipica di oltre atlantico che comincia con l’ovvio e prosegue con la noia di dialoghi scolastici, rendendosi da solo del tutto superfluo nella narrazione del dramma, per finire nella farsa con un ragazzotto vestito da cow boy che ammazza Vincent durante un gioco scellerato quanto ambiguo. Dunque il pittore non si sarebbe suicidato e il suo destino impastato col western viene incontro al rudimentale moralismo hollywoodiano.

Ma non ci sarebbe bisogno di parlare di questo costoso e pomposo nulla se non fosse per una circostanza che consente anzi impone un allargamento del discorso allo stato della cultura sotto l’infuriare dell’egemonia neo liberista coniugata all’imperialismo accademico ed editoriale di oltre atlantico. Da cosa nasce infatti la scena finale, quella del cow boy che uccide Van Gogh? Da una biografia del pittore che esigeva la considerazione di studio definitivo: 900 pagine uscite nel 2011 a firma di Steven Naifeh e Gregory Smith, due storici dell’arte americana già vincitori del premio Pulitzer per l’opera Jackson Pollock: An American Saga. I due, spulciando i documenti, hanno ipotizzato che Van Gogh fosse rimasto vittima di un banale incidente e sia stato ucciso da un sedicenne di nome René Secrétan,  al quale piaceva vestirsi da cowboy e sparare agli animali. Il pomeriggio del 27 luglio, 1890,  in compagnia di suo fratello, il giovane avrebbe premuto per sbaglio il grilletto e colpito l’artista che vagava nei campi. Si poteva non credere a due pulizerati che avevano fatto ricerche per dieci anni al fine di produrre 900 pagine? Di certo non potevano dubitarne le catene televisive ed editoriali anglosassoni che hanno fatto un battage a tappeto su questa biografia finale. Poi si è scoperto che in realtà gli autori, nel fabbricare questa ipotesi, avevano equivocato le parole dei rapporti della polizia francese, costruendovi sopra una dinamica di fantasia, anche forzata, per il semplice fatto che Steven Naifeh e Gregory Smith, non conoscono una parola né di olandese né di francese, ovvero le lingue in cui è scritta tutta la documentazione su Van Gogh: la loro biografia definitiva è nel migliore dei casi un qualcosa di seconda mano.

Naturalmente si tratta di una cosa assolutamente inammissibile: gli studi che abbiano un minimo di rigore e di serietà non possono prescindere da una buona conoscenza del contesto linguistico dei loro oggetti e non solo e non tanto per l’esame diretto della documentazione specifica, ma anche per la conoscenza generale dell’ambiente e della cultura che l’ha prodotta per darne un’interpretazione quando meno plausibile. Questo ai miei tempi era obbligatorio persino per le tesi di laurea. Immaginiamo che uno voglia scrivere un’ opera monumentale su Dostoevskij senza conoscere una parola di russo, lo prenderemmo a pernacchie e forse a calci in culo se ha la pretesa di dire qualcosa di definitivo. Ma evidentemente gli americani godono di una loro eccezionalità anche in questo campo, possono permettersi ciò che ad altri non è consentito ed è per tale ragione che tutta comunicazione pseudo artistica o letteraria che viene da quelle parti appare sempre semplicistica e/o fuori centro come se l’oggetto fosse dietro uno di quei filtri che usano i pessimi fotografi:  nemmeno si rendono conto di dover conoscere altri contesti linguistici per capire qualcosa che sia al di fuori del loro mondo. Una sindrome che interviene peraltro anche con l’informazione propriamente detta nella quale giornalisti e reporter navigano come dentro una bolla che li isola dall’ambiente e dalla realtà dei fatti dei quali vorrebbero raccontare. E’ in fondo la definizione meno triviale, ma non meno cognitivamente negativa di embedded.  Non è qui il caso di esaminare gli sciagurati ideologi che hanno costruito teorie a giustificazione di tutto questo, traendo improprie conclusioni persino dalla teoria chomskiana confondendo il fatto che tutte le lingue abbiano una struttura fondamentale, con i diversissimi portati culturali che veicolano, ma diciamo che l’imperialismo linguistico è pane quotidiano in certi contesti .

Del resto al cinema non vediamo che in qualsiasi ambiente ci si trovi, ciò che appare scritto è sempre in inglese, anche se siamo nella mongolia del X° secolo o fra le truppe cartaginesi o non sentiamo la hilerjugend che canta Die Fahne Hoch in inglese? Non sempre queste cose servono al acconto se non in via indiretta e spessissimo sono facilmente decifrabili: dunque o ci si trova di fronte a una massa di minorati mentali o si vuole evitare al pubblico americano medio  lo choc di apprendere che esiste una realtà che va oltre main street.  Uno choc che ormai investe direttamente anche noi: francese tedesco, russo per non parlare delle lingue orientali  sono per noi oggetti misteriosi e inammissibili così che più ci anglicizziamo più diventiamo ignoranti come i padroni.