324Antonio Gramsci pensava che i processi di cambiamento della società passassero attraverso la successione di guerre di movimento, spesso perdenti e di guerre di posizione nelle quali lo scontro non avviene per sfruttare le fasi critiche del ciclo capitalista, ma per affermare un’egemonia culturale che è la base per i reali e duraturi cambiamenti sociali. Ma sebbene Gramsci sia stato ampiamente dibattuto nella sinistra italiana, come in tutto il resto del mondo, la lezione pare che sia stata appresa dalla destra che a partire dalla seconda metà degli anni ’70 ha investito più che su semplici vittorie elettorali su un vero e proprio progetto egemonico di lunga durata che puntava a invertire il senso comune delle classi popolari, portando le vittime nel recinto del loro carnefice, come si potrebbe dire con un po’ di senno di poi.

Il fatto è che nel corso di questo conflitto di posizione le sinistre disorientate dalla decomposizione dell’Unione sovietica e dunque anche dalla crisi profondissima degli elementi più rigidi e inattuali del marxismo, ovvero il determinismo storico, hanno interpretato il loro ruolo come “resistenza” e non come contrattacco. Hanno pensato di poter contenere gli attacchi senza produrre alcuna nuova elaborazione e strategia, si sono fatte assediare perdendo terreno giorno dopo giorno fino a  che non sono state egemonizzate esse stesse dal pensiero unico lasciando dietro di sé solo delle enclaves o lasciando aperta solo la strada della disobbedienza, facilmente reprimibile o comunque contenibile. E’ per questo che si è potuto arrivare a stabilire disuguaglianze assolutamente folli e a situazioni inconcepibili fino a qualche decennio fa, trovando l’assoluta indifferenza quando non l’attiva collaborazione delle vittime designate e dei loro referenti politici e sindacali. Un recente studio di  Emmanuel Saez et Gabriel Zucman mostra che la metà più povera della popolazione americana possiede il 12% della ricchezza, mentre l’1% della popolazione più ricca nel possiede il 20%. Negli anni ’80 questo rapporto era del 20% contro l’11% . Per passare al concreto mentre negli anni 80 (a dollari costanti) il reddito della metà più povera era mediamente di 16 mila dollari l’anno, quello dell’1 per cento si aggirava attorno ai 432 mila mentre oggi è di 1 milione e 300 mila. Il tutto accompagnato da un arresto della mobilità sociale, oggi tra le più basse al mondo e che contraddice in pieno il famoso sogni americano. Più o meno la stessa cosa è avvenuta anche nei Paesi europei.

Ma questo è niente perché la regressione catastrofica e l’aumento esponenziale delle disuguaglianze si evince anche meglio da altri fattori: benché secondo l’Ocse la produttività sia aumentata di quasi tre volte sulle due sponde dell’atlantico nello stesso periodo preso in considerazione per la distribuzione del reddito, i salari sono rimasti al palo e anzi è esploso il fenomeno dei sotto salariati , ovvero di quella ampia e variegata fascia di persone con lavoro dipendente, continuativo, precario o episodico che guadagna solo i due terzi o meno del salario orario nazionale lordo. E, sorpresa, essi sono più numerosi proprio dove le cose sembrano andare meglio: se la media della zona euro è del 15, 9 % quella della Germania è del 22,5 %, quella britannica del 21, 3%, quella irlandese del 21,6, quella olandese del 18, 5, mentre è attorno al 15% in Spagna e Italia.  Va da sé che non è stato possibile ricavare il dato in Grecia dove non si sono nemmeno potute fare rilevazioni.

Si tratta di cifre impressionanti ancorché probabilmente edulcorate attraverso le ipocrisie statistiche, numeri che assieme al contemporaneo aumento della disoccupazione e alla messa in mora del welfare, denunciano l’impossibilità di coesistenza fra neo liberismo e democrazia, fra il laissez faire e la libertà, fra capitalismo economico e merito, insomma fra la realtà e la chiacchiera narrativa. Che impongono di salutare i signori che pretendono di fare solo resistenza ovvero tutti quelli illusi di poter cambiare grazie a qualche mobilitazione le logiche della Ue e dell’euro,  ma anche tutti quelli che pensano sia impossibile o indifferente un’uscita a sinistra da questi meccanismi.  Sono persone che hanno già perso la guerra di posizione, che sono già prigioniere dello spettacolo mediatico insensato e grottesco, ai quali di certo non si può chiedere di lavorare per creare una diversa egemonia culturale, di guidare una qualunque traversata del Mar Rosso a meno che non si tratti di una crociera. Fanno persino resistenza a quei rischieramenti resi inevitabili da una crisi endemica e non più ciclica del capitalismo finanziario di cui sono divenuti alla fine fedeli giannizzeri.