Questo anno disgraziato è destinato a lasciare molte piaghe aperte in attesa della superfinfezione che si va formando, ma ha anche segnato la definitiva adozione di una nuova parola che meglio di altre definisce il quadro economico e politico nel quale brancoliamo: banchismo. Le parole nuove sono sempre benvenute perché illuminano una parte di realtà rimasta prima in ombra e anche se arrivano, come l’uccello di Minerva, dopo le trasformazioni o le mutazioni maligne possono essere un’arma per contestarle e tentare di cambiare la rotta.
Naturalmente non esiste ancora una definizione univoca e precisa di banchismo: il termine è nato originariamente per definire gli istituti di credito che detengono fondi neri e depositi ombra, in particolare quelli dei paradisi fiscali ed è stato sdoganato in Italia da gli anti signoraggio, ma in termini globali si è rapidamente estesa a i centri finanziari imbottiti di titoli spazzatura, di scommesse inesigibili. In seguito, quando enormi quantità di denaro pubblico sono state usate per salvare o tamponare queste imprese finanziarie private, quando si è scoperto che il sistema bancario mondiale indirizza il 95% degli investimenti in pura speculazione, “banchismo” si è venuta affermando come concisa ed efficace sintesi dello sviluppo terminale del capitalismo finanziario.
Ci sono ovviamente stati parecchi passaggi prima che venisse in mente di sintetizzare il tutto con una sola parola: quello primitivo e fondamentale è stato l’abolizione del gold standard, ossia della convertibilità in oro della moneta circolante, con il quale in sostanza si è in realtà completamente slegato il denaro dal valore – lavoro, mettendo le basi per la creazione di moneta da parte di privati. Da lì ne sono derivate conseguenze a catena che sono culminate nelle espropriazioni sui conti correnti di Cipro, esperimento che oggi trova riscontro nelle direttive europee e americane. Nel “Finance Stability Board” del G20 di Basilea si è definitivamente affermata la tesi che la crisi finanziaria del 2008 dimostra come la partecipazione del contribuente e del correntista è necessaria alla stabilità finanziaria. Al di là delle conseguenze pratiche pendenti su ognuno di noi, questo significa che ogni soldo depositato in banca diventa di proprietà della banca stessa e che in caso di necessità il contante o i fondi potranno essere sostituiti da azioni dell’istituto di credito. Tali azioni dovranno ovviamente essere sostenute poi dallo stato, tramite i nostri soldi “vivi”. Così i giochi speculativi sui quali non abbiamo alcun accesso come correntisti diventano responsabilità individuale dei clienti e responsabilità sociale della collettività
Questo già ci avvicina al cuore oscuro del significato di banchismo. Da tutto questo si evince anche che la banca e i relativi centri finanziari non riconoscono alcun supervisore e men che meno il sistema democratico o gli interessi della comunità, ma sono come mostri impazziti che agiscono in perfetta auto referenzialità come dimostra anche il fatto che fabbricano e detengono titoli per un valore 12 volte superiore al pil mondiale. Mostri che tra l’altro impediscono, grazie a una politica ormai subalterna ovunque, la creazione di una legislazione volta ad imbrigliarli, anzi spingono sempre di più verso questo inferno e cercano di celare questa realtà prima grazie agli ambienti accademici e poi ai media di cui, direttamente o indirettamente, hanno la proprietà.
Così, per esempio, non sappiamo che la disoccupazione in Usa è diminuita grazie al fatto che si è stabilito di considerare occupato chi lavora un’ora a settimana oppure non sappiamo che se ancora nel 2011 l’80% per cento degli italiani possedeva una casa ora la percentuale è del 67% e che questo patrimonio è quasi tutto finito in mano alle banche. Tanto un qualche pomposo cialtrone può sempre spiegarci che questo è un sintomo di modernità, come del resto sono molto moderni il precariato e i salari da fame. Mentre le televisioni in mano ai super ricchi ci invitano a non abbandonare i nostri sogni. Anche tutto questo è banchismo.
Interessante l’articolo, come sempre, così come il commento di Roberto Casiraghi. Mi permetto di aggiungere alcune mie osservazioni.
Analizzando la metamorfosi messa in atto dal sistema capitalistico per sopravvivere a se stesso, ho l’impressione che stiamo assistendo ad una sua mutazione tanto radicale, da far erroneamente ritenere a taluni, anche illuminati commentatori, che sia in fase addirittura terminale.
Il progresso tecnologico, che ormai anche in Cina, ha dissolto qualunque proporzionalità tra il valore della produzione industriale e l’apporto di lavoro umano, ha reso conclamata l’insostenibilità di un sistema produttivo non più in grado di provvedere (pur obtorto collo) ad una capillare distribuzione di reddito, così da non riuscire più a garantirsi una quota di consumatori sufficiente.
L’intellighenzia finanziaria dominante ha già pronta la soluzione.
Non un ritorno ad un fordismo-taylorismo illuminato, così da ridare dignità al lavoro e significativi margini di libertà ai lavoratori.
Neanche un REDDITO DI CITTADINANZA, tanto caro a Giacinto Auriti (e non a quel tapino di Grillo), impensabile in assenza di uno Stato sovrano con piena sovranità monetaria (anche questa cosa mai vista).
Credo che la soluzione dei nostri usurai dominatori sia quella del DEBITO DI CITTADINANZA, che crea un vincolo verso l’erogante in tutto simile al concetto di servitù prediale o schiavitù di servizio, qui modernizzato ed esteso, iniziando magari dai beni di consumo corrente più impegnativi.
Si comincia con la casa, attraverso la concessione di mutui di durata superiore alla vita media stimata del contraente. O alle auto, con formule “all inclusive” che lo agganciano come cliente praticamente a vita. Si continua con le polizze assicurative e… si arriva alla spesa alimentare al supermercato di fiducia, la fantasia degli scarafaggi del marketing è infinita.
Ma, chiedo scusa, mi rendo conto che forse manca qualcosa: alla fine il conto chi lo paga?
Ma noi naturalmente. Sempre meno attraverso il lavoro, sempre più attraverso il debito, beotamente entusiasti di contribuire così alla fabbricazione perenne della torre dove abitiamo, che a nessuno di noi sarà mai consentito di ascendere, nonostante certi sognatori credano il contrario. Anche perché i piani più in alto sono già assegnati da sempre.
Questo è il futuro che il capitalismo “morente” ci prepara. Mentre lui giace inerte come una murena sul fondo, si appresta a sopprimere gli stati nazionali che gli si fanno accanto in soccorrevole aiuto, condizione imprescindibile per realizzare il “nuovo” progetto.
La promessa finale? Tutti consumatori felici.
Felici di consumare a debito, furbamente convinti che tanto nessuno paga (perché muoiono tutti prima…).
Felici perché non ci saranno più guerre, tranne che per portare “libertà e democrazia” a qualche selvaggio crudele.
Felici di votare per Ernesto o Evaristo, che tanto il bipolarismo mette tutti d’accordo nello stesso sacco.
Diventeremo tutti belli, levigati, obesi, ignoranti e stupidi, ma FELICI!
In altre parole, saremo tutti americani…
La coniazione del neologismo dispregiativo “banchismo”, è forse la reazione epidermica ad una manifestazione, direi, cutanea dei primi sintomi di questa metamorfosi in atto. Così come lo scambiare una lebbra per un’acne particolarmente insidiosa e ungerla di pomata al cortisone.
Propongo invece di approntare tutte quelle contromisure, inizialmente intellettuali e divulgative, che possano stroncare questa forma di incipiente deformità del nostro essere persone e del nostro ordine sociale, per quanto perfettibile.
Senza troppi riguardi o titubanze, però. Estirpare una cancrena, si sa, può richiedere l’uso della spada.
Io ho invece la sensazione che il termine banchismo complichi ulteriormente la leggibilità della situazione reale, come se lo sforzo per rimettere il capitalismo nei binari di una ragionevolezza che non è certo nei suoi istinti si esaurisse nel partorire nuovi concetti che si presteranno a nuove interminabili quanto infruttuose discussioni. Non si può infatti dimenticare che se è vero che i nuovi concetti permettono a volte di capire meglio la realtà sono, a volte, anche un ottimo sistema per mascherarla.
Nel nostro caso la realtà è molto semplice. Il capitalismo è un’ideologia predatoria per definizione, utilizza cioè i soldi e le risorse degli altri e non le proprie per realizzare i suoi fini ma, così facendo, assicura innegabilmente lo sviluppo economico e tecnologico, quello sviluppo al quale non sembriamo disposti a rinunciare, e, come se non bastasse, ci rende tutti corresponsabili delle sue malefatte utilizzando, con le banche, i nostri stessi soldi per finanziare lo sviluppo. Si tratta peraltro di uno sviluppo dei cui frutti gode solo una porzione ristretta della popolazione mondiale mentre la rimanente deve necessariamente essere sfruttata più o meno duramente perché la povertà dei molti è la precondizione della ricchezza dei pochi. Si parla tanto dei guai dovuti alla globalizzazione ma se il lavoro di un operaio in Cina gli fruttasse lo stesso salario di un operaio italiano o tedesco, come sarebbe solo giusto e doveroso, nessuno avrebbe mai interesse ad importare prodotti dalla Cina perché i costi aggiuntivi del trasporto annullerebbero ogni convenienza a farlo. Se dunque avessimo una governance mondiale fatta non di capitalisti all’arrembaggio ma di politici etici (una specie, peraltro, mai esistita) la prima norma implementata mondialmente sarebbe che a parità di lavoro deve esserci parità di salario e la seconda che deve esistere un’unica valuta in quanto l’esistenza di valute diverse è lo strumento principe per garantire alle nazioni forti la capacità di espropriare le ricchezze delle nazioni deboli. Questo ovviamente obbligherebbe ad un sistema mondiale di prezzi simili ovunque sia per quanto riguarda le prestazioni di lavoro (servizi) che i beni e le merci mentre permarrebbero minime oscillazioni dovute ai costi del trasporto, alla qualità di servizi e merci e a qualche altro fattore. Ovviamente questo significherebbe la fine dell’inflazione e, con la scomparsa dell’inflazione, l’eliminazione della necessità per il cittadino di mettere i propri soldi in banca per recuperare le perdite inflattive. Il capitalismo, che si basa sul meccanismo illogico per cui noi cittadini accettiamo di buon grado di dare tutti i nostri soldi letteralmente al primo venuto, anziché tenerceli ben stretti, sarebbe in ginocchio.
Le discussioni attuali, però, anche quando sono critiche, tendono a non andare mai alla radice, come se i problemi si potessero risolvere non toccando la radice ma cominciando dal colore o dalla forma delle foglie, come quando si chiede al capitalismo di diventare più “etico” oppure di rientrare nei binari di una moderata aggressività. La discussione fondamentale invece è semplice, quasi banale: cosa mettere al posto del capitalismo per garantire lo sviluppo economico e tecnologico che è, per molti di noi, ormai irrinunciabile. Una volta individuata una soluzione alternativa, si potrebbe cominciare a chiedersi come implementarla e come evitare che il capitalismo, con la forza che gli è data dal fatto che siamo proprio noi, con i nostri sudati risparmi, a renderlo potente, vanifichi gli sforzi fatti per tradurla in pratica.
Per quanto riguarda i titoli tossici anche qui le cose sono molto più semplici di quanto si pensi. I titoli tossici o sono rappresentativi di qualcosa che non ha mai avuto un valore (e in questo caso rappresentano una truffa nei confronti dell’acquirente, come per esempio se io immettessi sul mercato dei titoli che rappresentano il valore di un’autostrada che non è mai stata costruita) o sono rappresentativi di qualcosa che aveva un valore tempo fa ma il cui valore è nel frattempo diminuito senza però che il venditore del titolo abbia informato l’acquirente che il valore del bene è diminuito (come sarebbe il caso di un mutuo su una casa andata distrutta in un incendio e non coperta da assicurazione). Anche in quest’ultimo caso avremmo comunque a che fare con una truffa. Dove sta il problema dunque? Forse nel fatto che sono gli Stati Uniti ad aver obbligato le banche di tutto il mondo a mettersi in pancia montagne di titoli tossici approfittando della propria possanza e impunità?
PS Mi chiedo se la forza contrattuale degli Stati Uniti sia stata esercitata anche nei confronti della Cina costringendola a riempirsi anch’essa di titoli tossici. Qualora fosse così, ma anche nel caso contrario, se ne potrebbero trarre delle interessanti deduzioni sul reale rapporto di forza tra le due superpotenze.
leggete:
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/12/27/pierfranco-pellizzetti-il-jobs-act-tra-vendette-e-giochi-di-potere/