giovani-disoccupatiAnna Lombroso per il Simplicissimus

Si, c’è davvero da chiedersi dove vivano quelli che grazie a un sistema elettorale di designazioni e e assegnazioni tra affiliati, si arrogano il diritto di decidere delle nostre esistenze, in quali distanze siderali si siano comodamente collocati, per ostentare una così indifferenze e arrogante lontananza dalla nazione. Gente che si sente parte del pingue Belgio, che ritiene di meritare di sedersi al tavolo dei Grandi, in virtù dello spocchioso senso di superiorità che nutrono, del disprezzo che provano per noi cittadini, popolino riottoso e incapace, da guidare come un gregge indolente. Gente anzi convinta che se fosse per loro, per le loro conventicole, i loro patti scellerati chiamati  eufemisticamente larghe intese, le loro famiglie più o meno sacre, l’Italia non verrebbe trattata da paria, da intoccabile, da pig. Gente che va in tv a raccontare di popoli fratelli ridotti alla fame come fosse una espiazione per corruzione, dissennatezza e dissipatezza, convertiti in un Terzo mondo in Europa, come se non avesse contribuito più o meno direttamente al nostro Terzo mondo interno, come se qui non patissimo già i costi umani della crisi, meno cure, meno istruzione, meno assistenza, meno tutele, meno salvaguardia nel territorio, meno analisi e meno medicine, meno ciccia per la cena.

Non so dove viva gente che per far bella mostra di sé, per le vanterie di un ceto avvantaggiato, si convince di essere in grado di organizzare un’Expo mondiale, pur sapendola già ostaggio di oscuri interessi criminali, in una regione che è ormai largamente occupata dalle mafie, per offrire una vetrina traballante e opaca di un paese di cartapesta, di produzioni taroccate, di un’imprenditoria accidiosa e dimissionaria da iniziativa e investimenti innovativi e competitivi. Che fa la spaccone a ripetizione proponendosi per le olimpiadi nell’auspicio di essere ancora là nel 2024 e oltre, costruendo stadi con quell’ossessione del gigantismo che dimostra tutta il nostro infausto provincialismo, invece di investire in manutenzione  delle nostre vere ricchezze.

Gente che si candida per un vertice sul lavoro, come un malato che organizza un meeting sulla cura della sua lebbra, come un paradossale e ridicolo espediente per chiamarsi fuori, mettersi dalla parte di chi decide e non di chi subisce.

Loro non sanno e non vogliono sapere, persi nelle loro menzogne di ripresa a portata di mano, come fosse pure quella una specialità olimpionica, inclusi nel loro privilegio che ci esclude dai diritti, determinati solo nella conservazione delle loro prerogative. E tra questi in barba ai summit, ai vertici, ai convegni, c’è il lavoro, sempre più accessibile per via familiare, per appartenenza, per affiliazione, per riconoscimento di una somiglianza e una iniqua empatia.  Anche il lavoro è diventato loro, un lavoro che non è più orgoglio, valore, gratificazione, ma solo ricatto, fatica oppure privilegio trasmesso, regalato, un diritto riservato arbitrariamente solo a chi appartiene alle cerchia di chi già ce l’ha, lo può tramandare, concedere, diramare.

Sono loro che si nutrono e vorrebbero alimentarci di miti oltraggiosi, quelli di una gioventù ripartita in ragazzi – i loro – pieni di iniziativa, che il lunedì sfogliano il sole 24 ore in cerca di master, occasioni all’estero, opportunità selettive e elettrizzanti, e altri – i nostri. indolenti mammoni, torpidi, che meritano l’esclusione o la servitù, in un  ribaltamento della verità,  condizionata solo dall’andamento dei corsi di Borsa e dalle esigenze momentanee e capricciose dei grandi azionisti, dei potenti fondi e banche di investimento,  in un paesaggio connotato dalla divaricazione crescente delle ingiustizie, dall’alterazione intollerabile delle capacità di reddito tra chi sta sopra e chi sta sotto, dalla cancellazione di diritti, contratti, interessi,   regole di convivenza e antichi patti e vincoli in fabbrica, in ufficio, a scuola.

Chissà come saremo quando questa crisi finirà, se finirà, quando questo sistema di accumulazione rapace si sarà forse suicidato per la sua stessa bulimia,  quando questo frenetico circolare di soldi finirà, quando i pochi arricchiti si troveranno a fare i conti con le falangi, cresciute di numero, di poveri nei paesi ricchi e in quelli già oggi poveri. Quando ci si riscoprirà che il mondo va avanti non con i soldi, ma con il ferro e le patate, cioè con la produzione di merci reali, capaci di soddisfare bisogni umani.

Non so se vedrò tutto questo, ma mi auguro che quella gente l’avremo comunque tirata giù dai loro troni, dai loro regni della disuguaglianza e dello sfruttamento.