nozzeAnna Lombroso per il Simplicissimus

In un ritrovato clima di equità sociale si esonera la Chiesa dal pagamento dell’Imu. Ed è giusto: la crisi che si è abbattuta su tutto il sistema penalizza anche riti, liturgie e sacramenti. E’ quanto certifica l’annuario statistico dell’Istat, secondo cui la tendenza è per una sempre maggiore diffusione del rito civile: le coppie che decidono di sposarsi davanti all’ufficiale di stato civile sono passate da 79 mila nel 2010 a circa 83 mila nel 2011. Insomma si risparmia anche su quello: le cerimonie religiose sono tradizionalmente più fastose e costose, abiti, fiori, musica, fotografi, “oboli” alla chiesa ospitante, ne fanno un evento dalla onerosa teatralità, dalla spettacolarità sancita anche dalla trasposizione in festoso reality, che segue i nubendi dalla vestizione fino all’alcova.

Così se il matrimonio religioso resta la scelta più diffusa (60,2%), nelle regioni del Nord quello civile nel 2011 ha operato il sorpasso e prevale con il 51,7% rispetto al 48,3% di quello celebrato in chiesa. Nelle regioni meridionali, più attente al rispetto della tradizione, prevale il rito religioso (76,3%), in leggero vantaggio anche al Centro (50,1%).
Noi laici, sostenuti da pensose ed ottimistiche interpretazioni sociologiche, dovremmo essere contenti. La tendenza dimostrerebbe che il matrimonio ha perso il carattere sacrale e religioso per assumere quello di patto maturo, consapevole e civile tra due persone, di vincolo che si stringe davanti all’autorità dello Stato e delle sue leggi, benedetto dall’amore, sostenuto dalla solidarietà, favorito dal rispetto.

Ma altri dati invece fanno pensare che anche questo sia uno dei risvolti di un una crisi e del rigore con la quale si pensa di ammansirla e che ha come effetto proprio l’impoverimento della coesione sociale, l’imbarbarimento delle relazioni, la rottura in un diffuso clima di antagonismo alimentato dalla paura e della diffidenza, di sodalizi millenari, di intese “naturali” tra uomini e donne, genitori e figli, amici, affini, gente che sta nella stessa barca sempre più simile alla zattera della medusa, dove la fame può condurre anche al cannibalismo.
In Italia ci si sposa sempre meno: nel 2011 sono stati celebrati 208.702 matrimoni, quasi novemila in meno dell’anno precedente, con un tasso di nuzialità che passa da 3,6 a 3,4 per mille. Nel 2010 sono aumentate le separazioni (+2,6%), mentre sono leggermente diminuiti i divorzi (-0,5%). In crescita anche il numero di minori per i quali è stato stabilito l’affido congiunto, che si conferma la soluzione più diffusa sia in caso di separazione (89,9%) sia di divorzio (73,8%). Diminuisce di conseguenza il ricorso alla custodia esclusiva alla madre, che fino al 2006 è stata la più frequente. Nell’anno preso in esame, le separazioni sono state 88.191, rispetto alle 85.945 del precedente, mentre i divorzi sono stati 54.160, a fronte dei 54.456 del 2009.

C’è da temere che non sia una contabilità felice, dimostrativa di una società che ha raggiunto l’età adulta nel governo responsabile delle sue relazioni. Parla piuttosto di un’autobiografia nazionale sempre più costretta a piegarsi a soluzioni forzose, a convivenze coatte, consolidate sull’obbligatorietà e sulla convenienza, quella economica più ancora di quella del perbenismo. C’è da temere che sia una delle manifestazioni della moderna barbarie, che costringe a stare insieme nell’odio, anziché nell’amore, a convivere detestandosi, anziché amandosi, a evitarsi anziché incontrarsi, al silenzio dell’estraneità anziché ai bisbigli della confidenza.
Bisognerebbe ricordarlo a un ceto dirigente cinico e ostile, quello delle uscite inopportune sui bamboccioni, sugli sfigati, sui mammoni, sugli schizzinosi, sul familismo parassitario della pasta con la pummarola. Ma che è anche quello che nell’agenda più smemorata dei nostri bisogni della smemoranda, ostinatamente non annovera il riconoscimento delle coppie di fatto, omosessuali e eterosessuali, esclude dalla cittadinanza i nativi, ma interviene e condiziona le esistenze, le inclinazioni, le scelte, imponendo il primato delle disuguaglianze e del privilegio anche nei diritti, quello a uguale accesso nel rispetto delle diversità.

Si, loro sono più uguali, se i diritti civili si sono trasformati in appannaggi o in elargizioni e premi all’ubbidienza a convenzioni e conformismi. Se una Chiesa tanto occhiuta e arida da permettere a un Papa, nel silenzio delle autorità civili, di considerare le unioni omosessuali un attentato alla pace, condiziona ancora così pesantemente l’etica pubblica da volerla uniformare alla sua morale di parte. Se perfino l’amore diventa un bene privato, privatissimo, monopolio di chi può permetterselo, appannaggio di chi lo può benedire e sviluppare in una convivenza basata sulla condivisione di un tetto, un letto, una tavola, una festa che si prolunga nel tempo e conferma la bellezza dello stare insieme, del capirsi e del sostenersi nella buona e nella cattiva sorte. Come lo vorremmo noi che pensiamo che consista anche in questo l’essere compagni, dividere lo stesso pane, addomesticare con le carezze reciproche la crudeltà di questi tempi amari.