Walter Benjamin scrisse un piccolo saggio "I romanzi delle cameriere nel secolo scorso" venduti per strada dai colporteur, focalizzandosi sulle condizioni dei lettori di questa bassa letteratura. Come quella sull'Articolo 18

Errare è umano, ma perseverare è diabolico, soprattutto quando l’ostinazione cancella la realtà, la deforma e risponde ad interessi del tutto diversi. Una delle convinzioni espresse dai tecnici di governo, così da come da politicanti di basso profilo e dai media tutti (o quasi) uniti in comunione col nuovo potere, è che la facilità di licenziamento farà da volano allo sviluppo e aumenterà la propensioni delle aziende all’assunzione.

Da dove derivi questa idea così bislacca, in quale bar di Caracas sia nata, è impossibile dirlo: è un luogo comune che gira da tempo immemorabile, che fa da alibi al lavoro nero e all’evasione, ma disgraziatamente non ha alcun riscontro scientifico, come devo ripetere fino alla noia (qui), un specie di leggenda metropolinana che tutti gli studi smentiscono. Pazienza, in Italia  i neutrini viaggiano più veloci della luce dentro i tunnel mentre i pregiudizi o le idee sballate sono invece inamovibili come statue sul piedistallo delle chiacchiere. Però in previsione di smentite provenienti dal quel misterioso regno che si chiama realtà, il precedente regime berlusconiano aveva approntato una “verità” sulla quale tutti fanno giuramenti solenni: il milione e mezzo di posti di lavoro che si sarebbero creati con la precarizzazione introdotta dalla legge Biagi.

Naturalmente tutti si guardano bene dall’andare ad accertarsi che sia vero, compresi i tecnici competenti e così sfugge la desolante realtà: che si tratta di una pura fantasia con la quale si cerca di giustificare la sottrazione di futuro per un’intera generazione o vigliaccamente si cerca di trovare una giustificazione a proprie convinzioni. Però basterebbe consultare le statistiche dell’Istat per vedere crollare il castello di carte. Nel 2001, prima dell’introduzione della normativa Biagi gli occupati erano 21 milioni e 798 mila, quattro anni dopo cioè nel 2005 erano diventati 22 milioni e 542 mila. Insomma non un milione e mezzo, solo 744 mila in più. La metà di ciò che dice la leggenda, ma insomma abbastanza per dire che la precarizzazione a qualcosa è servita.  E invece no, nemmeno questo è vero, anzi è un vero inganno:  ciò che è successo è invece che tra il 2002 e il 2003 sono state fatti emergere dal nero  647  mila immigrati irregolari che lavorano nelle famiglie e nelle aziende. A seguito di quell’operazione emersero anche dal nero 38 mila lavoratori italiani prima sconosciuti alle cronache. Insomma il bilancio della “flessibilità” è stato quasi zero. Anzi a seguito di certi possibili effetti statistici, sempre in agguato quando i numeri si riducono e il lavoro è ballerino, può anche darsi che sia stato sotto zero.

Tuttavia ancora una volta ci viene proposta l’equazione sbagliata più precarietà = più lavoro, meno tutele = più posti. E davvero si tratta di un perseverare che appare  un po’ idiota . Se non fosse che la vera equazione non è quella presentata a tutto spiano sulle pagine dei giornali e sugli schermi televisivi, ma un’altra non detta : più precarietà = meno salario. E attenzione meno salario per qualche milione di persone significa in tempi medi meno salario per tutti. Non è certo un caso che in 10 anni le retribuzioni italiani siano inferiori a quelle di Cipro.

La prova del nove sta nel fatto che esiste una correlazione molto stretta fra livello dei salari e livello di occupazione: più è altro il primo, più è alto il secondo, con pochissime eccezioni. Così scopriamo che la cosa diabolica non è la perseveranza nel sostenere tesi prive di sostanza e di realtà, ma la menzogna che è alla radice.