Anna Lombroso per il Simplicissimus

Fidanzata, così il premier ha definito una misteriosa figura che si muove silenziosa sullo sfondo della sua sessualmente dinamica esistenza a custodia di virtù domestiche e buoni sentimenti.

Fidanzata, è un termine antico che profuma di colonia come le cartoline dei barbieri, di lavanda come i bauli del corredo, ben ambientata nel salotto di nonna Speranza e nella “Visita” di Sebastiano Lega.

È che in tempi di barbarie progressiva abbiamo bisogno (tutti, perfino il più coriaceo dei nuovi despoti) di parole antiche che riecheggino potenti e rassicuranti antichi valori o esorcizzino antiche minacce.

Succede così che parliamo di coraggio, quello dei piccoli eroi quotidiani che assomigliano più ai pompieri che ai samurai e che si sporgono negli infami sporchissimi tegami dei reattori per solvere problemi di tutti. O di quello di donne e uomini in piazza per una libertà, che quella si è un bisogno globale e ci interessa tutti e se la si agita là ne risentiamo beneficamente anche noi.

Succede che parliamo di paura. Quella irrazionale per un fenomeno che ci smuove emozioni ancestrali e reazioni animali. Quella per un domani che prende le sembianze di una minaccia anziche quelle di radiose visioni.

Succede che parliamo di tradimento. Quello compiuto verso una Carta voluta e sottoscritta da alcuni giovani uomini e donne che a guardare le foto sembrano anziani, forse perché avevano maturato responsabilità e saggezza in montagna, in galera, in clandestinità immaginando, loro sì, un futuro anche per noi, migliore e più denso di speranza e benessere di quello dei nostri figli.

E di tradimento nei confronti di un Paese, una patria che altro giovani avevano voluto unita e dolce per i suoi figli come il suo paesaggio e bella come il suo cielo e accogliente come le sue coste che non lo sono più, altro tradimento, per chi viene a rifugiarsi da fame e morte. Tradimento nei confronti della democrazia che è sempre più impoverita per arricchire una oligarchia di figure miserabili perfino nell’esercizio del proprio interesse personale in vendita per un bottino che non vale il commercio della dignità e dell’onore.

Onore è una parola che fortunatamente non viene più associata al delitto, ma che viene citata impropriamente a proposito dei nostri rappresentanti, onorevoli che ne sono poco dotati. E che usiamo troppo poco anche noi che dovremmo invece averla a cuore perché rappresenta un patto di rispetto stretto con gli altri, con le generazioni a venire, con la responsabilità e l’impegno che da uomini ci vincola a partecipare alla crescita equa e solidale della “patria”, il posto dove è bello vivere e ragionare insieme.

Patria poi è una parola che segretamente forse ci piacerebbe pronunciare senza retorica e farla uscire dai vecchi sussidiari che troviamo ormai solo sui banchi del vintage nazionale. Perché richiama a virtù domestiche e familiari, a valori condivisi che quando siamo soli ci emozionano e commuovono ma che fatichiamo a rivelare e esternare come se il senso della comunanza dovesse essere coperta dal velo del pudore se non della vergogna. E deve essere davvero un paese molto ferito nella sua identità, nella sua forze di coesione, nella sua capacità di dialogare e di guardarsi negli occhi, se abbiamo paura delle lacrime e dei sorrisi, della solidarietà e dello stare insieme, del sentirsi parte di una comunità, delle sue tradizioni che sono fatte del tricolore di pomodoro mozzarella basilico, ed anche di canzoni, bandiere, poesie, bellezza, di qualità miti e armoniose.

Qualcuno ha detto che la democrazia è una convivenza basata sul dialogo e che per questo dobbiamo curare le parole e guarire il nostro parlarci da quelle malate. La prima parola che dobbiamo guarire è proprio “politica”, la più tradita se viene da polis e politeia due concetti che vengono da vivere insieme e quindi da decidere insieme, e dal convivio ed è quindi l’arte e la scienza dedicata alla convivenza. E che invece viene piegata a rappresentare il suo contrario: politica della guerra, politica coloniale e così via fino all’accettazione dell’abusatissima definizione di Carl Schmitt della politica come rapporto nemico-amico, una relazione “bellica” di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta e inguaribile tra parti avverse e antagoniste. In una società troppo indulgente con le pacificazioni artificiali e con i passaggi da un campo all’altra, conviene difendere le parole che ci aiutano a schierarci e a scegliere se stare con i potenti o gli inermi, con gli arroganti o i ragionanti, con chi depreda o chi governa, con chi guerreggia o chi pacifica.