Anna Lombroso per il Simplicissimus
Lo so come li vorremmo: invisibili.
Si, bande disordinate e mute di invisibili, che raccolgano i nostri pomodori, i nostri mandarini, la nostra uva. Che asfaltino le strade del mondo e tirino su muri (e per favore non gettino un grido, non facciano rumore se cascano della impalcature per non turbare coscienze che dormono o orecchie che vogliono essere blandite dai jingle della pubblicità del Mulino Bianco). Che badino ai nostri vecchi, accudiscano i nostri bambini, curino i nostri i malati, lavino pile di piatti sporchi nelle cucine. Che puliscano pavimenti ma in ore notturne, nel buio, perché a volte li si incrociano negli uffici con i loro scopettoni e i loro secchi di saponata, e non è bello, non è dignitoso..
Li vogliono invisibili e muti, li vogliamo così, perché così non creano problemi, non ci fanno pensare, non ci fanno vergognare, perché così è più facile abbandonarli dimenticati in balia della malavita, dei nuovi predoni, del caporalato dei protettori, perché così è più discreta e più “segreta” la perpetuazione in età moderna della schiavitù.
Ed anche perché – invisibili – ci fanno meno paura. Li possiamo scordare e rimuovere così la loro “minaccia”, quella di attentare ai nostri privilegi, di minare certe labili sicurezze.
Forse non è giusto chiamare tutto questo razzismo. Forse il concetto di xenofobia è arcaico come quello di equità eguaglianza dignità diritti.
Tutto questo a che fare con l’eterna alleanza tra privilegio e discriminazione, con la non sempre facile integrazione tra legittimità e legalità.
C’è un governo da noi che ha una parola d’ordine: a casa nostra vogliamo comandare noi. A sottintendere che gli “altri” , ospiti mal tollerati, senza diritti oggetto soltanto di concessioni revocabili secondo convenienza devono accettare di essere invisibili e di godere di qualche premio se non si fanno accorgere di esistere e si comportano secondo i nostri desideri.
Gli immigrati determinano ricadute problematiche? Istituiamo quote di ingresso, secondo le nostre esigenge sociali economiche organizzative e per quanto eccedano esuberino, allora facciamone dei clandestini, trattandoli da delinquenti, anche quando sono solo “irregolari”, secondo regole istaurate da noi “aventi diritto”, dimentichi della nostra responsabilità nei confronti di quelli che annegano giù dai barconi della morte o crepano nelle stive.
La criminalità si annida nelle loro comunità, si alimenta della loro disperazione? Allora spianiamo i loro accampamenti – indecenti sporchi incivili –, cancelliamo la presenza indecorosi dei mendicanti laceri che ostacolano il passaggio.
L’importante è che questi atti si compiano senza che ce ne accorgiamo, senza che li vediamo, senza che dobbiamo percepire che stiamo contribuendo con la cecità e l’indifferenza a rovesciare i nostri diritti in strumenti di esclusione per gli altri. Che stiamo a nostro agio in una società di diseguali incuranti, nel perseguire le nostre garanzie, che l’unilateralità è la premessa dell’ingiustizia, della discriminazione, dell’altrui disumanizzazione.
E d’altra parte questa è una delle facce del nostro assetto “sociale”, nel quale la socievolezza è erosa, compromessa, ridotta. Nella quale la parola umanità suona retorica e vuota e le unità politiche (Europa, Stato, Italia, Costituzione..e che altro?) quelle create dalla storia e dall’esperienza dei popoli, si disgregano in piccole enclaves sospettose l’una dell’altra.
E quando irrompono con un carico di dolore superiore alla nostra indifferenza, allora concediamo loro la pietà. Pietà, vorrei non dovessimo mai provarla. Vorrei che il nostro Paese non dovesse conoscerla, esercitando invece “compassione”, quella di Rosa Luxemburg che ne scrive a proposito di un bufalo al giogo, immagine esemplare di “servitù”, quella di Kierkegaard, che viene dall’ “essere provati allo stesso modo”, quella che si esercita mettendosi al “posto di chi soffre, al posto di ogni sofferente”. Quella di Schopenhauer, che la vede come un’estensione dell’amore di sé, come condivisione del dolore proprio e altrui.
Insomma vorrei che sentissimo una “compassione civile e politica”, sdegnata partecipe solidale e comune, perché l’affronto fatto a chi soffre è commesso anche contro di noi umani tutti, contro quelli di noi che hanno patito esilio miseria sopraffazione e quelli che li patiranno.
Un gruppo di miei amici che vive in questo Paese che teme la fine dei suoi privilegi, ha deciso di usarne uno, quello della visibilità, impiegando un potere straordinario, quello del coraggio, per far uscire i profughi del Sinai dall’invisibilità.
Stando loro a fianco, dividendo con loro la fame, non potendo dividere la paura e l’offesa.
Aiutiamoli a fare sentire le loro voci. Quello che succede laggiù non poi molto lontano è affar nostro. E’ una minaccia anche al nostro “diritto ad avere diritti”, un rischio per la nostra “cittadinanza”, per la nostra appartenenza alla comunità democratica e per il nostro esercizio di libertà e dignità. Che le voci dei popoli interrompano il silenzio degli Stati. Per questo vorrei sentire le loro voci insieme alle voci del coro della democrazia o di quello che ne rimane.
Bellissimo articolo Anna, sarò retorica, piagnona, mi hai commossa, il tuo articolo è scritto con il sangue e si sente ed abbiamo bisogno di questo grido, compassione…condivisione del dolore altrui….credo di far parte di una generazione in estinzione, non è retorica certo per me, ma modello di vita….difficilissimo da mettere in pratica anche nel nostro privato, se non lo si fà in privato, anche nei rapporti quotidiani, se si schivano le sofferenze altrui, le situazioni di sensibilità particolari, come si può sperare in quella “compassione civile e politica” di cui hai parlato? Vedo, leggo tanto sull’amanità, ma è cominciando dal piccolo, dal privato che possiamo estenderla questa compassione, ne abbiamo bisogno come l’acqua, inariditi quali siamo…solo questo volevo aggiungere al tuo importante articolo. Grazie.