Sono stato felice quando la candidatura della Bonino alla presidenza del Lazio coagulò attorno a sé un vasto ambiente di partiti e di opinioni. Felice perché pensavo che questo avrebbe favorito una certa laicizzazione del Pd, nonostante la scelta fosse stata fatta per mancanza di altri candidati. E felice perché ritenevo che l’intelligenza e il rigore di Emma potevano essere come l’aglio contro i vampiri degli apparati, un soffio di aria nuova necessario alla capitale coinvolta in un penoso e ambiguo fascisteggiare.

Non è che abbia del tutto cambiato idea, ma pensavo che il candidato radicale nell’accogliere investiture così ampie che la rendevano credibile, forse vincente, avesse dato per scontato di essere solo Emma Bonino e non Emma Bonino in Pannella. Adesso invece, con questa storia dello sciopero della fame, torna in campo un armamentario politico nobile, ma purtroppo orientato a dare testimonianza più che a vincere una competizione elettorale durissima.

Certo le ragioni della Bonino sono formalmente ineccepibili, ma questo tornare a focalizzare tutto sulle posizioni radicali rischia di riportare la sua credibilità nell’alveo della battaglia per posizioni marginali, quanto a percentuali di voto. E soprattutto mette in crisi  il rinnovamento possibile con  una sua vittoria o anche sconfitta di misura, su tutto l’ambiente politico.

Non dico che la Bonino debba divorziare da Pannella e nemmeno chiedere la separazione legale, ma insomma almeno un momento di riflessione, come dicono le coppie in crisi,  ci vorrebbe. Anche perché se lei fa lo sciopero della fame, non può rischiare di far subire ai suoi potenziali elettori una lunga serrata di libertà e di trasparenza.