Una certa idea dell’Italia. Si possono leggere saggi, osservare le persone, subire sul lavoro le anomalie del bel paese. Ma anche di fronte ai presepi capita di cogliere lo spirito del tempo. In una nottata di insonnia da cibo mi sono imbattuto in un’opulenta rappresentazione della natività che si trova nel santuario della Madonna della Guardia, sulle colline genovesi. Viste e palazzi che riproducono angoli della Superba, finestrine e lanterne che s’illuminano di notte, terracotte plastiche che stagliano la loro immobilità di giorno. E muri che s’innalzano con i loro mattoncini disegnati, archi desueti, balconi improbabili. Ma la cosa curiosa è che questo presepe non è stato messo in piedi tutto in una volta: si è accresciuto nel tempo, però  non in orizzontale, bensì in verticale. Ogni anno a qualche costruzione veniva aggiunto una sopraelevazione o un’ala, un archetto, un balcone, un fregio. Probabilmente solo la perdita di appeal del presepe dopo il Settecento ha fatto si che che non si arrivasse ai dieci piani e alle verande. E’ un presepe che racconta la natività solo di striscio, racconta invece per metafora le ataviche astuzie, i piani casa, i condoni, le regole instabili e fumose che ci governano. E non oso immaginare quali doni porterebbero i Re Magi se appena si uscisse dalla leggenda: oro, figa e immunità, probabilmente. Come avviene nel presepe vivente a cui assistiamo, nel ludico pellegrinaggio alla stalla di Arcore. E ai suoi stallieri.