L’attacco al lavoro nelle sue forme contrattuali  e nei suoi diritti è scritto a chiare lettere. Così come è scolpita nel dramma della crisi la svalutazione della sua centralità e dignità operata dal neoliberismo e dai suoi riveriti sacerdoti. L’attacco, portato avanti in nome di una finanza autistica e autofertilizzante, è infame dal punto di vista etico, demenziale da quello economico, catastrofico su quello storico. E forse una qualche vaga consapevolezza del disastro dev’esserci persino nelle forze politiche se si affanno a nascondere la sostanza del massacro dietro documenti che non sfigurerebbero in una biblioteca della letteratura umoristica.

Le 52 pagine sulla riforma del lavoro, appena approvate al senato, non hanno nulla da invidiare a Tre uomini in Barca o al Circolo Pickwick, sebbene siano state prodotte dai miglior pesci lessi del Paese. E non si tratta solo dell’articolo 18, ma anche di tutto il testo che è un capolavoro in grado di allietare chi ha il culo al caldo e chi lo vuole a tutti i costi mantenere nella medesima situazione. Il modo con cui si finge che queste 52 odiose pagine non siano una pietra tombale sui diritti e il viatico per una riduzione dei salari, è esilarante.

Sentita questa. Nei rarissimi casi in cui si potrà adire il magistrato per un reintegro nel posto di lavoro, una volta che la sentenza sia passata in giudicato,  l’azienda dovrà pagare la retribuzione non pagata durante il periodo della contestazione giudiziaria, deducendo però il reddito percepito nel frattempo dal dipendente con un’altra eventuale attività E fin qui … ma se uno non avesse trovato nulla durante il periodo della causa? Non importa perché la nuova normativa impone che venga dedotto “quanto il lavoratore avrebbe percepito se avesse cercato con diligenza altro lavoro”. Il che vuol dire in poche parole che non prenderà proprio nulla visto che non si sa in base a quali criteri debba essere giudicata la diligenza, che si dà per scontato che non trovare un lavoro implica una scarsa diligenza e che quest’ultima dovrebbe portare a percepire quanto meno un reddito equivalente a quello fornito dal posto perso.

E’ una follia? No è esattamente quello a cui si vuole giungere: perché è chiaro che in queste condizioni anche i pochissimi che potrebbero sperare in un reintegro, si troveranno ad affrontare spese legali senza avere  la speranza di avere nemmeno un risarcimento e finiranno così per rinunciare.

Poi ci sono le mattane destinate, in un periodo abbastanza breve e soprattutto fra i giovani, ad abbassare i salari già da fame. L ‘Aspi che è una sentina di inquità di vario tipo, contiene anche questa aurea regoletta: i lavoratori in mobilità perderanno l’indennità se rifiuteranno un lavoro che comporta una retribuzione inferiore fino al 20% dell’indennità lorda stessa. Non ci vuol molto a capire che questo significherà un calo dei salari generalizzato e che la stessa azienda avrà interesse a licenziare per riassumere con una retribuzione decurtata del 20%. E’ insomma un’estensione e una radicalizzazione assoluta del modello Pomigliano, sapete quello che avevano detto sarebbe stata un’eccezione.

Questo è ciò che anche il Pd ha votato in senato. Qualcosa di cui ci sarebbe da vergognarsi con molta, ma molta “diligenza”  se questo sentimento sopravvivvesse. Invece mi sa che si fanno delle grasse risate per essere riusciti a fare gli umoristi col dramma del Paese.