Luca Carbone per il Simplicissimus

È straordinario come in Italia si invochi, da tutti i pulpiti mediatici, la scienza, quando le decisioni e le responsabilità sono politiche; e si invochino invece la morale e l’etica in presenza di, per così dire, ‘patologie sociali’, senza prima condurre una preliminare analisi scientifica dei fenomeni.

Un caso piuttosto eclatante riguarda l’istituzione deputata alla produzione di scienza e di formazione, per eccellenza: l’università pubblica. Sono materia di dominio pubblico i continui scandali legati a brogli concorsuali, che spesso evidenziano relazioni familiste, in barba alle più elementari norme ‘meritocratiche’: vince il concorso il “figlio, la figlia di…” (il “discendente” può essere però anche non consanguineo, ma il più efficiente aiutante di campo), e non il candidato con una sfilza di titoli abilitanti lunga quanto la coda di una cometa. Ciò che non torna nella percezione comune e mediatica del fenomeno, persino da parte di chi ne è (stato) vittima, è il modo in cui il “sistema universitario” viene definito, e
cioè molto (troppo) spesso, come “mafioso” o “feudale”; ricordando che “sistema mafioso/feudale” si riferisce e può riferirsi sempre soltanto ad un sottoinsieme più o meno vasto di docenti.

Ma è la definizione che – concettualmente – è inaccettabile; nonché fuorviante, dal punto di vista degli interventi correttivi che si vogliono apportare al sistema universitario.

Per ricorrere ad una metafora anche abusata, non è solo vero che per curare una malattia bisogna prima farne la corretta diagnosi – ma è anche vero che per fare una diagnosi corretta si deve per forza avere una conoscenza adeguata dell’anatomia di un corpo ‘mediamente’ sano. Per restare nella metafora, ed andare subito al punto: il “corpo accademico” non può essere comparato al “corpo mafioso”; da un punto di vista scientifico. Ciò che sorprende, partecipando alle discussioni anche molto appassionate e critiche, sui correttivi da apportare alla deriva del ‘sistema’ è che si salta a piè pari l’analisi teorico – scientifica dell’istituzione universitaria; il che non può non colpire, dal momento che tutte le persone coinvolte, hanno come unica fonte di legittimazione delle loro critiche, istanze, proposte, in ultima istanza, l’essere stati abilitati e qualificati all’esercizio della ‘scientificità’. L’impressione generale è che una, per carità, sacrosanta indignazione “morale” prenda il sopravvento sulle necessarie elaborazioni “analitico-sintetiche”… necessarie, se si vuole incidere nella realtà in oggetto ed in atto. Né per cominciare a fare quest’opera di sintesi analitica è necessario partire dai massimi ed ultimi sistemi, si può piuttosto cominciare ad imparare da qualunque manuale di sociologia, cose piuttosto prosaiche, ma anche piuttosto inevitabili, ed innanzitutto che l’Università (ciò piaccia o meno soggettivamente) è fondamentalmente un’organizzazione burocratica.

Reati da colletti bianchi

Una delle molte organizzazioni formali, e formalmente impersonali, che regolano la vita quotidiana delle collettività nelle moderne società industriali, da una parte; dall’altra una burocrazia che ha alcune proprie specificità. Tutto si può dire della e contro la mafia, salvo che, come ha dimostrato in fin troppe occasioni, non sia un’organizzazione, e terribilmente efficiente. Certo: ma non un’organizzazione burocratica in senso moderno.

Se si assume il termine-concetto burocrazia in senso molto ampio, la mafia è forse assimilabile a forme di regimi burocratici premoderne, ma questo è un altro discorso, e rimarrebbe comunque immediatamente non comparabile ad un’organizzazione burocratica formale moderna. Permane, inoltre una differenza banale e fondamentale, al livello del
partecipante individuale, tra il mafioso che svolge la sua attività al di fuori dello e contro (almeno formalmente) lo Stato e l’accademico che, almeno formalmente, svolge la propria attività dentro e per lo Stato: il primo mette in gioco e in pericolo la propria stessa vita; l’altro, al massimo, la propria “cadrega”.
Intendo quindi negare che vi siano comportamenti “delinquenziali” da parte di un certo numero (non piccolo) di accademici, non dimenticando il personale tecnico-amministrativo (la burocrazia-dentro-la-burocrazia)? Tutt’altro, poiché che si tratti di comportamenti illeciti ed illegali è innegabile (nonché stabilito anche da consistente numero di sentenze), ma sotto quali fattispecie di reato ricadano, questo dovrebbe essere “oggetto” di analisi teorica accurata. Anche se non incontrano troppo forte disapprovazione sociale, io tenderei a collocarli nella fattispecie dei “reati dei colletti bianchi; cioè azioni delittuose commesse da coloro che appartengono ai settori più benestanti della società” (basterebbe eliminare il
“più” dalla definizione); oppure di quella molto simile dei “reati dei potenti, cioè quelli in cui l’autorità conferita da un certo ruolo viene usata in modo illecito”. Ma si tratta solo di ipotesi, sulle quali non sembrerebbe inopportuno si aprisse un sobrio dibattito “socio- giuridico”
Così come sono state magistralmente e classicamente concettualizzate da Max Weber le organizzazioni burocratiche sono definite e definibili da alcune caratteristiche basilari, almeno al livello del modello teorico (l’idealtipo): gerarchia (anche delle responsabilità) basata sulle competenze acquisite; “uffici” pubblici (ruoli separati dalle persone e dalle proprietà personali); normative e regolamentazioni (interne e verso l’esterno: ciò che si può/non si può fare);impersonalità / oggettività delle procedure formalizzate; comunicazioni continue e codificate tra i vertici e gli esecutivi; possibilità di carriere tutte interne all’organizzazione. Queste attività sono regolate, e devono esserlo, da un adeguamento razionale dei mezzi ai fini, agli obiettivi sociali, per conseguire i quali l’organizzazione è stata progettata e programmata. In teoria, quindi, una macchina razionalizzatrice perfetta, o perfettibile.

Strutture informali

Ma cos’hanno ‘scoperto’ i sociologi studiando il funzionamento empirico delle burocrazie? Che, praticamente, sempre (si noti: in tutti i casi) alla “struttura formale” – e quindi dichiarata, esplicita, ribadita nei documenti e discorsi ufficiali, nelle normative, nelle sanzioni ecc. – se ne affianca, e si intreccia con essa, una “struttura informale” (chiunque abbia avuto esperienza di una qualche istituzione disciplinare, come la leva militare intuisce subito di cosa si tratti). Questo fenomeno non sembra solo inevitabile ma, se contenuto in una certa misura, anche utile ad un migliore funzionamento della struttura formale. Il rischio è che la struttura informale prenda il sopravvento su quella formale (se ci si bada il novanta per cento della produzione spy-action americana – la saga di Bourne per tutte – è basata su questa lotta, a tratti feroce, tra struttura formale e struttura informale, all’interno di una stessa organizzazione). E questo sarebbe il caso in oggetto dell’Università italiana, incluso il comparto tecnico-amministrativo.

Non so bene come e quando questo avvenga – come studioso di sociologia non mi sono occupato delle dinamiche interne delle organizzazioni burocratiche, ma prevalentemente di loro aspetti strutturali legati ai mutamenti sociali; tuttavia ipotizzerei di mettere in relazione il prevalere della struttura informale su quella formale ad un’altra delle tendenze “regolari” di tutte le organizzazioni burocratiche (dalle chiese agli eserciti) messe in luce dai sociologi: “…sempre [si noti] le dinamiche sociali della burocrazia producono una situazione in cui l’attenzione dei burocrati si sposta da[gli] … obiettivi ufficiali [dell’organizzazione] ai mezzi che essi stessi hanno elaborato in seno all’apparato burocratico: i burocrati si lasciano affascinare dalle loro stesse procedure e dagli intrighi che accadono nella vita all’interno della gerarchia burocratica”.

Si ha quindi un’inversione di priorità tra i fini da raggiungere ed i mezzi per raggiungerli, e questi ultimi diventano i fini reali perseguiti dal burocrate, mentre gli obiettivi, i fini sociali e comuni, per i quali in origine è sorta l’organizzazione, vengono, de facto, ritenuti meri mezzi per ottenere l’unico fine reale che conta, la perpetuazione ed il rafforzamento
dell’organizzazione stessa. Per restituire plasticamente il ‘guicciardinismo’ imperante (il grande Guicciardini mi perdoni!), nell’organizzazione autoperpetuantesi, cioè la diplomazia dei compromessi più convenienti, e perciò degli intrighi continui, delle alleanze sempre mutevoli e reversibili (non è machiavellismo, come si crede banalmente: non c’è nessuna vera ambizione principesca in gioco) credo non ci sia migliore “immagine” di quella racchiusa nell’avvertimento che mi
rivolse, amichevolmente, un amministrativo molto ‘navigato’, ma a suo modo disinteressato: “Attento a quello che dici e a con chi parli, qui dentro il più fesso usa sette lingue”; e non si riferiva certo alla padronanza delle lingue straniere…

Feudalesimo

La struttura informale tende a prendere il sopravvento e il predominio su quella formale, quanto più l’organizzazione burocratica si orienta alla propria auto-perpetuazione e tanto meno all’assolvimento dei compiti che – formalmente – le sono attribuiti e riconosciuti, con le relative risorse; nel nostro caso, com’è ovvio: la produzione e la trasmissione formativa di conoscenza verificata e verificabile.
In relazione alla cooptazione personalizzata, ed all’esercizio e divisione del potere ‘baronale’, ma anche nel business as usual delle relazioni gerarchiche, l’altra ‘categorizzazione’ ricorrente per qualificare il sistema universitario è quella di “sistema feudale”: ricordo il disincanto ironico di un accademico che scrollando le spalle mi diceva che si trattava dell’ultima istituzione medievale sopravvissuta alle rivoluzioni dei tempi moderni. Ma si tratta di un’altra approssimazione non scientifica, come risulta da quanto già detto; e non mi pare si tratti di questioni di ‘lana caprina’.

Certo, come ‘mafioso’, anche ‘feudale’ è un chiaro indice semantico del prevalere della struttura informale su quella formale, ma ciò che colpisce un osservatore tendenzialmente disincantato è il modo in cui alcuni singoli docenti, e gruppi di docenti, e accorpamenti di gruppi di docenti, considerano le discipline scientifiche che insegnano, o persino il proprio
approccio alla disciplina, e cioè, in un davvero paradossale “materialismo dell’immateriale”, come loro ‘proprietà esclusiva’, che pertanto non deve essere né invasa, ma addirittura nemmeno avvicinata da altri, siano colleghi, o, peggio, outsider.
Se considerato superficialmente questo comportamento potrebbe far credere che sia in gioco una sorta di dedizione estrema e rigorosa alla disciplina scientifica, al sapere ‘oggettivo’ alla costruzione del quale si è (sarebbe) duramente lavorato, ma ‘in realtà’ si tratta esattamente dell’opposto: anche in questo caso la disciplina scientifica – per quanto
magari anche esercitata discretamente – è degradata al livello di mezzo per l’affermazione e assicurazione propria o del proprio sottogruppo di ‘pari’ – in una visione del mondo che i teorici classici avrebbe definito probabilmente come pretto (e gretto, da bottegai) ‘spirito borghese’. Fermo restando che la grande borghesia storica è stata ben altra cosa, s’intende.
Se si desiderasse e volesse realmente e concretamente l’affermarsi il rafforzarsi e l’espandersi della disciplina scientifica in quanto tale, e per la quale si starebbe lavorando, si farebbe esattamente l’opposto: si cercherebbero attivamente interazioni, relazioni, confronti e scontri, a livello nazionale e ancor più internazionale, si coopterebbero solo gli allievi e le allieve più capaci (che spesso sono caratterialmente ‘irriducibili’…), si qualificherebbe al massimo livello possibile la produzione scientifica propria e della ‘scuola’ ecc. ecc. Quindi anche nel caso dell’approccio bottegaio si tratta del prevalere della perpetuazione della struttura organizzativa ancora a scapito dell’espletamento delle sue funzioni costitutive.

I lunghi corridoi

Se non si tematizza e problematizza apertamente e pubblicamente questa tendenza dell’organizzazione accademica a rinchiudersi in se stessa, le molteplici soluzioni solo ‘normative’ e ‘procedurali’ che vengono di continuo proposte ed elaborate in maniera anche molto sofisticata, al fine di combattere le patologie dell’organizzazione, pur essendo utili e
necessarie saranno sempre aggirabili: non si può battere il burocrate sul suo stesso terreno, sin quando non verrà scosso alle basi il predominio, ad oggi praticamente pressoché assoluto, della struttura informale su quella formale Il tutto, come mi fa spesso notare uno spirito poietico a me carissimo, produce all’interno dell’Accademia, ma anche nell’ambiente sociale come riflesso del ‘prestigio’, l’equazione: conquista della Conoscenza = successo nella Carriera. Assioma cui è fatto obbligo, tacito o esplicito, sottostare, nei sacri uffici: come se il pensiero stesso si disponesse e si dispensasse solo per gradazioni gerarchiche. Così, in realtà, se ci si conquista la fiducia degli ufficiali c’è più libertà di parola in una caserma che non in un dipartimento o in un laboratorio. E in una burocrazia scientifica chiusa su se stessa, la carriera è (fatte salve le pur sempre lodevoli ed esistenti eccezioni) il frutto dell’opposto: di quanto si sia stati in grado di subordinare la conoscenza, la stessa scienza, alla perpetuazione degli intrighi e del controllo dell’organizzazione, alla scalata gerarchica. Un curioso effetto collaterale di questo regime è lo sviluppo rigogliosissimo di quella che si potrebbe definire “intelligenza corridoiale”. Solo negli incontri da corridoio, fuggevoli ed al riparo da orecchie indiscrete, si può venire a sapere come realmente vanno le cose, e la finezza e pertinenza delle analisi corridoiali sono davvero eccezionali; con l’unico difetto di dissolversi in puro nulla non appena si schiuda la porta e si varchi la soglia degli ambitissimi studi dei capo-burocrati…

Per misurare quanto sia fondata l’equazione accademica fondamentale (cCo 3 =s 3 Ca) è sufficiente ricordare che due dei più grandi teorici italiani del Novecento, Croce (il più studiato al mondo in vita) e Gramsci (il più studiato al mondo in morte), non erano nemmeno laureati, e ciò vuol dire che produzione di conoscenza oggettiva, ed eccelsa, e perpetuazione della gerarchia universitaria non sono affatto sovrapponibili. E per rompere il circolo dell’autoriproduzione burocratica è forse necessario cominciare ripensando e riprogettando l’organizzazione a partire dai suoi fini primari, individuati tra l’altro, da delle semplicissime domande poste da Gramsci, ed alle quali ancora non si è data, dopo quasi un secolo, alcuna risposta concreta: “Un corso universitario è concepito come un libro sull’argomento: ma si può diventare colti con la lettura di un solo libro? …all’Università si deve studiare o studiare per saper studiare? Si devono studiare «fatti» o il metodo per
studiare i «fatti»?”.