Anna Lombroso per il Simplicissimus
Vi ricordate quando, sia pure in presenza di quella che veniva definita l’eclissi del sacro, permanevano nella nostra società ben dritti e imponenti alcuni pilastri della confessione comune, radice indiscussa dell’Europa? Uno dei più solidi ereditato dalla fede cattolica da altre religioni monoteiste talmente severe da non offrire nemmeno l’espiazione tramite confessione, salvo quella sul lettino dell’analista, è stato certamente il senso di colpa, condiviso a tutti i livelli pubblici e privati, redentivo quando sfociava nell’orgoglioso pentimento, perfino per terroristi, mafiosi e leader politici ladri quanto baciapile.
C’era il senso di colpa nei confronti di babbi laboriosi e mamme dedite al sacrificio, degli insegnanti sotto i cui occhi copiavamo la versione; c’era quello che provava il birichino che rubava le gomme dal tabaccaio. E c’era quello del magnate che a Natale si emendava con l’elargizione di panettoni. C’era quello dei mariti che si sollazzavano con la segretaria e riparavano con un regalo sospetto. E poi c’erano quelli di scala, il complesso di colpa coloniale, quello di qualche filantropo che scontava i peccati con carità pelosa prontamente scaricata dalle tasse, quello di qualche mecenate che aveva comprato un Van Gogh per due soldi e gli dedicava una sala nel suo museo. E forse qualche faraone in una iscrizione che la pietra di Rosetta non ci ha aiutato a decifrare, avrà dedicato un pensiero penitenziale agli schiavi che avevano costruito il suo monumento a imperitura memoria della ferocia.
E c’era la quaresima per pagare il fio di abbuffate di frittelle e galani, il venerdì con l’odiata sogliola bollita (per i più reietti la polenta passata sull’aringa) come punizione di capricci gastronomici, perfino il rosario recitato dalle ragazze del ramo cattolico della mia famiglia interreligiosa, con i capelli ancora umidi dai primi tuffi proibiti di maggio insieme ai figli dei vicini.
Beh, preoccupati di poter essere contagiati dal quelle patologie della coscienza ci hanno tolto anche quelli, come in un pizzino dei vari presidenti del consiglio di questi anni.
Levare il complesso di colpa coloniale, in presenza di disperati che arrivano fuggendo a guerre esportatrici di civiltà? Fatto, è colpa loro, come d’altra parte di debosciati siculi e calabresi inclini all’adesione a organizzazioni mafiose, che non hanno saputo approfittare delle magnifiche sorti e progressive del nostro stile di vita.
Disperdere la responsabilità collettiva e individuale per i treni piombati verso Aushwitz dai quali si è distolto lo sguardo? Fatto, siamo italiani brava gente, tanti anni sono passati e poi basta firmare qualche petizione per le sanzioni a Israele e i conti sono alla pari, che gli stranieri mica arrivano su ferro e semmai li facciamo rimpatriare in aereo.
Cancellare i morsi per via di sfruttamento intensivo della forza lavoro? Fatto, era necessario per allagare le geografie sulle quali disperdere un po’ di polverina d’oro del benessere che arricchisce chi ha e arriva come una nebbia anche sugli altri.
Depennare la contrizione per la nausea comprensibile indotta da trasgressioni a inclinazioni e comportamenti normali? Fatto, si è già dato col minimo sindacale di diritti concesso a unioni di fatto, quote gay, dolce comprensione per genitorialità di affittuari celebri, come dimostra la festosa illuminazione esibita dalla Casa Bianca per celebrare la legittimazione dei matrimoni omosessuali, mentre intanto si bombardavano etero e omosessuali a Aleppo.
Buttar via lo spirito quaresimale dopo feste goderecce? Fatto, perfino questo, ormai siamo tutti a dieta e le minestrine penitenziali sono una ricette gaudente da grand gourmet.
Eh si ormai governano anche le nostre coscienze, perché rimordano secondo criteri dettati dall’alto e non certo per liberare noi, ma invece chi le colpe le ha commesse e distribuite anche quelle non equamente tra sottoposti e sudditi.
In cambio di qualche assoluzione preventiva e senza la recita di qualche padrenostro, ci viene concesso di non provare né pietà né solidarietà per le vittime ma anzi di accanirci e respingerle in qualità di custodi di un modello e delle sue tradizioni e convinzioni identitarie minacciate e offese. Ci viene permesso di considerare malati e anziani un peso che è legittimo cercare di far ricadere su altri, di rimuovere, in vista di più pressanti necessità. E siccome invece di mettere a disposizione di senzatetto e terremotati i fondi per il più elementare dei diritti, un tetto dignitoso sulla testa, abbiamo dovuto contribuire a comprare aerei da bombardamento e a salvare banche criminali e la loro dirigenza sotto l’ombrello di influenti complici governativi, veniamo amnistiati per il delitto di avere detto ancora una volta di si, ricordandoci che bisognava collaborare alla sicurezza e alla perpetuazione del nostro stile di vita e dei nostri risparmi, alla tutela del valore dei nostri immobili, alla salvaguardia dei nostri fondi e delle nostre assicurazioni, minacciati dall’avidità di improvvisati giocatori al tavolo verde in vena di guadagni facili.
Uno invece dei sensi di colpa viene promosso e nutrito, quello che dovremmo provare per le generazioni future, le più povere dal dopoguerra si dice, che scontano le nostre esistenze al di sopra delle possibilità, l’orgia di conquiste e diritti alle quali abbiamo immeritatamente partecipato, le troppe garanzie erogate che hanno compromesso la vita e le prospettive di sviluppo di aziende e imprese pubbliche e private costrette a cercare nuovi mercati e nuove, meno esigenti, risorse umane.
Così dopo averci persuaso che “consumo dunque sono”, adesso non siamo nessuno per aver troppo voluto, troppo preteso e troppo comprato, quindi perfetti per stare piegati sotto l’onere della dissipazione, la frustrazione di non poter più comprare il superfluo e nemmeno il necessario, la negligenza di non dare altrettanto giù per li rami, nemmeno a Natale.
A pensarci bene un senso di colpa dovremmo invece coltivare con scrupolo, quello nei confronti di noi stessi, che abbiamo scambiato dignità, rispetto, responsabilità, ragione, passioni per un po’ di egoismo da conservare come capitale per la sopravvivenza.
il capitalismo genera guerra tra poveri, ma se chi sta solo un briciolo piu su degli ultimissimi, provasse il morsus conscientiae, magari per adivenire poi ad una critica profionda, allora l’ideologia totalitaria del capitale mette a valore questo rimorso imprimendogli la torsione del ressentiment verso chi sta sotto, come negli esempi della lombroso
il capitale e un ottimo psicoanalista, davvero totalitario, il suo superamento permetterebbe la liberazione dallo spinoziano “morsus concientae” per divenire al “gaudium” di questo stesso pensatore.
Il capitale così ci opprime anche nell’inconscio, quando a dispetto di ogni considerazione minimamente rigorosa ci appare potente esempiterno, o ci induce a pensarlo come il nipotino avido che prende troppa marmellata (o profitti)
il capitalismo ha un funzionamento oggettivo, in quanto totalitarismo non può agire diversamente da come fa , bisogna superarlo e non imputargli l’avidità come si fa col proprio nipotino, ad un piccino che ha la potenzialità cambiare i propri atteggiamenti (ragioni piu approfondite ai commenti al precedente post della lombroso)
Si deve però dire, la classe della lombroso non è acqua, altro che inviti a scendere in piazza per sostenere il governo gialloverde che abbiamo dovuto leggere su questo blog, da parte di chi neanche una autocritica ha poi saputo fare
“non imputargli l’avidità”
l’avidità può esser intesa come avarizia, uno dei peccati capitali, se l’avida accumulazione è consustanziale al capitalismo,allora il capitalismo e irredimibile .
Per usare un linguaggio semplice anche se Non tecnico, che magari può suonare moralista ( a chi ragiona un po’ ottusamente…), ma che è invece di netta condanna del capitalismo.
Chi è viziato da qualche peccato capitale, è destinato alla dannazione eterna.
Il problema che finche chi condanna il capitalismo non attua strategie efficaci per contrastarlo ma si arrabatta su fini e dotte questioni semantiche, il capitale ci ha già fregati per il prossimo decennio.
caro Jorge, rispondo qui a proposito dei suo quesito sull’avidità come vizio connaturato del capitalismo nei limiti di un commento, riservandomi di tornare sulla materia in un post più approfondito.
Prima di tutto mi viene da pensare che a volte le differenze sono più negli occhi di guarda che nei fenomeni. In questo caso il giudizio sul mondo di impresa e il capitalismo negli anni del dopoguerra potrebbe risentire del favore con il quale si esaminano i processi della “ricostruzione”, anche, se vogliamo, in riferimento all’opinione benevola condivisa anche da molti storici in merito alla carità non certo disinteressata elargita dagli alleati con il compassionevole Piano Marshall. Una macchina quella della ricostruzione guidata da una larga coalizione piena di fervore perché doveva rimettere in piedi il sistema statale e la sua amministrazione, insieme alla società tutta. In una fase dove la tempistica dell’ accelerazione dello sviluppo si rimetteva in moto senza l’impulso della “distruzione creativa” che d’altra parte era mancata anche alla rivoluzione russa.
E non va sottovalutata la natura e la qualità del mondo di impresa italiano, perlopiù di tipo dinastico. I pionieri della prima generazione erano invecchiati, morti o appartati per via delle eccessive intrinsichezze col regime. Le seconde e terze generazioni giù per li rami dei capitani di industria (parlo degli Agnelli, dei Falk, dei Borletti, dei Cini, dei Volpi) non sono animati dallo stesso spirito e per questo la loro accumulazione sembra meno affine all’avidità che vediamo oggi possedere gli azionariati che possiedono oggi le stesse imprese superstiti impegnate nell’attività di contare i dividendi del gioco nel casinò finanziario. Direi che grazie a loro e alla loro natura sulla quale alla diagnosi dell’economista si dovrebbe accompagnare quella di un freudiano o lacaniano, si è creato lo spazio per uno Stato imprenditore (quello che permette l’unica riforma strutturale della nostra storia, la nazionalizzazione dell’energia), quello che darà vita all’Iri e al sistema delle partecipazioni, oltre che a progetti neocoloniali, all’estero e nel nostro Terzo Mondo Interno. La grande impresa, lasciata alle cure di Mediobanca, comincia già a formulare progetti di ingegneria finanziaria, pur disponendo di una modesta potenza contabile, disimpegnandosi da quelli di rinnovamento industriale, i rampolli stanno dietro le quinte esponendo di buon grado un nuovo ceto, quello dei manager/tutori, incaricati delle faccende sporche ma soprattutto della negoziazione con lo Stato e gli altri livelli intermedi, addetti dunque alle relazioni industriali e sociali e soprattutto a tessere la tela parassitaria del sostegno pubblico assistenziale e di defiscalizzazione.
Mentre langue il settore delle produzioni dove l’innovazione assume il valore visionario e simbolico dell’utopia olivettiana, il brand che si sta affermando anche grazie alle intese opache con la politica e la pubblica amministrazione è quello speculativo, edilizio e immobiliare, premessa per l’irruzione sulla scena del tycoon per antonomasia ma anche di quelli altrettanto invasivi che hanno avuto la facoltà di infiltrarsi in tutti i settori, dai pullover, alle autostrade, dall’editoria, al turismo.
Ecco, a ben vedere nulla fa pensare che negli anni ’50 e ’60 la belva dell’avidità fosse ammansita se non addomesticata. E nemmeno che fosse in letargo. Aveva altre modalità, aveva più spazio competitivo, aveva più forza lavoro a disposizione per essere sfruttata. Ma forse aveva anche antagonisti meno spenti, che la costringeva a trattenere i suoi ruggiti e le sue zampate. Se però siamo così, oggi, non è per caso.