hqdefaultChi vive nel caos ormai non più calmo della contemporaneità neo liberista ha bisogno di coraggio per denudare l’imperatore, oppure di inconsapevolezza e di ottimismo senza ragioni per rivestire di fantasiose vesti la nuda e cruda realtà. Ma il coraggio di cui parlo e di cui si ha bisogno non è esattamente quello espresso dalla parola che in fondo esprime solo una sorta di agire appassionato: questo significato è frutto di una deviazione semantica dalla linea principale dell’indoeuropeo e lega il lemma più alla capacità di non abbattersi per dolori fisici,  morali o per disgrazie e infortuni, più alla sopportazione che alla volontà di prendere l’iniziativa in nome di qualcosa. E’ una mia vecchia ricerca universitaria che tuttavia sembra stare a politicamente a pennello con l’ultimo trentennio della sinistra italiana oltre che con gli ultimi gli ultimi seicento anni della storia del Paese. Per questo mi appresto ad infliggervi un po’ di linguistica comparata.

Coraggio come anche gli analoghi lemmi delle lingue romanze e i prestiti tra queste e altri idiomi come l’inglese, derivano tutti da cor –  cordis cuore appunto, trasformatosi poi in coratum da cui poi il coraticum del tardo impero e i suoi derivati: si tratta appunto di una forma nata dalla decadenza e che ne riflette in certo qual senso le angosce, le visioni, l’impotenza e l’arroccarsi dentro il limes e nel proprio particulare: nel latino classico coraggio si rendeva con animus o virtus che non avevano nulla a che vedere con l’emotività o l’avventatezza, ma piuttosto con la saldezza della volontà. Oppure con mos – moris che nel suo significato classico più noto vuol dire costume come i più attempati lettori forse ricordano, ma nelle sue origini stava per carattere, volontà, desiderio.  Si tratta di una strada laterale interessante perché coraggio in tedesco  si dice Mut , mod nelle lingue scandinave (e forma l’origine di mood in inglese poi variato di significato con l’adozione della parola francese courage dopo l’invasione di Guglielmo il conquistatore). Tutte questi lemmi hanno origine nella antico germanico “mos” il quale a sua volta deriva da una radice proto indoeuropea  presente anche nel greco  mṓsthai che significa aspirare, chiedere, creare ed la stessa da cui deriva madre. Originariamente dunque quello che oggi traduciamo con coraggio era qualcosa di molto diverso: volontà, convinzione, visione, vale  a dire qualcosa di più e diverso da un semplice agire appassionato e/o irriflessivo, Aggiungiamo a questo  che dalla stessa radice derivano il germanico Macht, ( e quant’altro come to made ad esempio) che vuol dire sia potenza che fare,  ma che trova in latino un analogo nel verbo mactare il quale tra i suoi significati contiene il celebrare, il consacrare, l’ avere forza,  tanto che l’interiezione “macte” corrispondeva al nostro “forza” o evviva. Col passare del tempo però il verbo già in epoca imperiale è stato sempre più stato usato in significati gergali e solo correlati in qualche modo a quello principale per indicare  punizione o uccisione ed è rimasto con questo significato nello spagnolo matar o nell’italiano mattatoio e mattanza. Non si può non notare quale orribile riavvicinamento epocale semantico vi sia in quell’Arbeit macht frei scritto all’ingresso di Auschwitz.

Ad ogni modo originariamente ciò che si intendeva come coraggio aveva a che vedere con la creazione, la volontà, il fare ed esprimeva perciò in concetto molto più complesso. meno legato all’emozionalità, alla capacità di superare la paura, ai moti del cuore, ma indicava soprattutto la forza di mettere in discussione l’ordine stabilito delle cose , di fabbricare qualcosa di nuovo o per inverso di usare la forza per impedirlo. In un certo senso l’origine arcaica della parola rassomiglia la movimento dialettico dell’hegeliano Aufhebung che significa sia abbattere che conservare. Tutto questo ci dice che ad onta delle fascinose, ma ondivaghe considerazioni di Sartre la paura o meglio l’impotenza o la sterilità ideale non sono davvero una libera scelta, sono invece la servitù a un coraggio che non si è avuto. Che non è poi quello di scendere in piazza e di protestare per qualcosa sfidando i manganelli, non soltanto comunque, ma soprattutto quello di rifiutare integralmente la trasformazione del lavoro e dunque dell’uomo in merce come inevitabilmente prescritto dall’economia di mercato. Tra l’altro l’unica merce a non subire un processo di feticizzazione. Ma spesso il coraggio della rivolta non basta al coraggio che occorre per una rivoluzione.