Anna Lombroso per il Simplicissimus
Non ricordo chi con sorridente amarezza disse una volta che interloquire di politica con Berlusconi e i suoi familiari e famigli era come pretendere di catturare attenzione e consenso in una platea di voyeur durante la proiezione di un film hard, parlando della svolta di Salerno, o promettendo per dopo una bella tribuna politica con La Malfa e Saragat.
Chissà se dopo la condanna l’esule di Arcore, antesignano delle carceri private della Cancellieri, o dal domicilio coatto della Sardegna, troverà accenti più dimessi. L’ultimo videomessaggio era nel segno della continuità: l’apparizione virtuale ma liturgica dell’uomo della provvidenza inviato in terra a miracol mostrare, quello della salvezza dai comunisti, del primato dell’affaccendata mescolanza tra business e politica, del tycoon che si fa da sé e prodigiosamente soffia la vita perfino in Alfano. Impossibile uguagliare i gangli profondi della sua pulsionalità animale, della sua radicalità prepolitica, del suo estremismo di centro, capace di rivolgere i suoi cachinni e i suoi sberleffi indifferentemente contro destra o sinistra colpevoli di mantenere l’arcaica forma stessa della politica.
Ci provano tecnocrati e rimasugli partitici, mutuando le sue boutade surreali, le iperboli visionarie, indifferenti a ogni nesso logico, gli annunci immediatamente smentiti, le uscite inopportune, ma sarà probabilmente ineguagliabile. E in questo risiede il rischio di non averlo rinchiuso allo Spielberg, altro che 4 anni, o nell’isola di Montecristo, con Sallusti come l’abate Faria o come Maroncelli. Di non essere riusciti a rimuoverlo dall’immaginario oltre che dalla parte più vergognosa dell’autobiografia nazionale, perché la sua discesa in campo e il suo ventennio hanno legittimato, suo tramite, verità nascoste, vizi comuni, estraendo l’inconfessato e fino a allora inconfessabile da dentro una parte di italiani, liberando meccanismi di identificazione inediti, svincolando intimi bisogni di licenza e assoluzione, emancipando i difetti fino a renderli virtù pubbliche.
Perché ha ragione il Simplicissimus, il film Italia continua anche se il volto prestato, l’idealtipo apparentemente è fuori dallo schermo, dopo aver germinato i fiorito, i zambetti, dopo aver nutrito con il suo humus un ceto dirigente e diligente nell’esercizio dell’affarismo, della personalizzazione della politica, nella commistione con una scrematura malavitosa particolarmente rapace. E dopo aver alimentato il terreno favorevole all’affermazione dell’enfasi delle sue primitive intuizioni, con il sopravvento dell’ideologia e dei suoi sacerdoti al governo, quella delle privatizzazioni, della liquidazione coi beni comuni e con le garanzie, della democrazia e della legalità. Il disegno più o meno sofisticato, più o meno bestiale è lo stesso: sgretolare lo stato abbattendo lo stato sociale e l’impalcatura di diritti, far coincidere l’interesse individuale e personale con quello di un ceto ristretto e avido, favorire un l’affermazione di quella cupola globale di padroni spregiudicati, influenti tramite il possesso dell’informazione, giocatori d’azzardo della finanza creativa, politici prestati al malaffare, emissari della criminalità.
Altro che l’interdizione, meritava la cancellazione: ha fatto di più che privatizzare il governo, trasformandolo in una macchina d’affari per sé e poi per un ceto che ubbidisce a un ceto più su, ha cambiato complice una opposizione invertebrata e media appiattiti i codici della politica, le sue forme essenziali, annettendo il sottofondo malato dell’anima nazionale e corrompendo quello più vulnerabile, ha sostituito i suoi sberleffi e lo sghignazzo cinico dei suoi successori al verbo nobile delle virtù repubblicane e della democrazia.
Non voglio condividere responsabilità che non ho, non devo pentirmi di complicità che non ho concesso. Ho il diritto di far parte di un tribunale che deve condannarlo all’oscurità, facendo calare la tela sul suo spettacolo.
Credo, senza volerlo, di essere finita in un caffè letterario…potrei dire, Freddy,giusto per ampliare le citazioni : “QUANDO IL SAGGIO INDICA LA LUNA, LO STOLTO GUARDA IL DITO”… dicono i sacri libri sia stato profferito da Aristotele dai nobili lombi…
Io personalmente preferisco il casareccio.. e continuo ostinata a guardare il dito. Solo con il banale quotidiano riesco a far quadrare la mia pensione, dopo aver tentato di annegare i miei dispiaceri nel rosolio che la signora Lombroso ben conosce.. Lo abbiamo sorseggiato insieme nei salotti di Nonna Speranza… e questo prima che io vendessi i bicchierini della mia nonna assieme al Loreto impagliato e a un busto in bronzo di Alfieri… Devo dire che Gozzano lo ho sempre adorato… è a lui, se non vado errata, che dobbiamo la frase “Il meglio di altri tempi non era che la nostra giovinezza”.
Signor Freddy… signora Anna….. cerchiamo di “far comunicazione” senza sbrodolarci addosso la cultura d’accatto che volenti nolenti ci ha condotto sin qui…
Non è con il bello scrivere o con le riesumazione dei conti di Montecristo che possiamo farci capire dalle nuove generazioni… E neppure con i voli pindarici della luna , ops Luna, restìa alla rete. Ciaula ci è ben riuscito. Nel suo piccolo.
Salùt
Francesca Gatti
N.B.
bibliografia:
http://www.guidogozzano.martinosanna.de/testi/vr05_l_amica_di_nonna_speranza.php
Marroncelli, Pietro (citato nel post ma non rintracciabile su google se non se ne conosce il nome):Nacque a Forlì nel 1795, dove rimase fino all’età di 15 anni, quando venne inviato a Napoli a intraprendere gli studi musicali. Iniziato ai segreti della «Carboneria», il Maroncelli con fede ed entusiasmo abbracciò gli ideali patriottici dei carbonari e subito si accinse a quell’attività di cospiratore che gli costerà persecuzioni, prigionia e grandi sofferenze.
Completati a Bologna gli studi musicali, si fece ben presto conoscere come compositore e scrittore, mentre nello stesso tempo Intensificava l’attività carbonara. Nel 1819, rimasto orfano del padre, il giovane decise di trasferirsi a Milano, ottenne un impiego presso la Casa musicale Ricordi e divenne amico del Pellico.
I moti di Napoli (1820) suscitarono grandi speranze nell’animo degli Italiani e spinsero Piero Maroncelli a riprendere, con rinnovato fervore, l’attività carbonara. Col Pellico e il Lambertenghi predispose un vasto piano d’azione che avrebbe dovuto interessare la Lombardia e il Piemonte, ma il 6 ottobre fu arrestato. Condannato a morte, ebbe la pena commutata in venti anni di carcere duro da scontare nella fortezza dello Spielberg. Passarono dieci anni di patimenti atroci; solo quando un tumore al ginocchio gli rese impossibile ogni movimento, il medico osò ordinare che gli venissero tolti i ferri: poco tempo dopo il chirurgo, per salvarlo dalla cancrena, gli amputò l’arto ammalato. Il giovane, che aveva sopportato con stoicismo la prova terribile per ringraziare il chirurgo gli offrì una rosa.
Il 30 agosto 1830, per grazia sovrana, Piero Maroncelli, con Silvio Pellico, fu liberato dal carcere; in seguito fu esiliato. Sposata Amalia Schneider, una cantante lirica, si recò a New York, con una compagnia di artisti. Dopo i primi successi, i guadagni sfumarono e il Maroncelli si trovò in gravi ristrettezze economiche. Lottò con coraggio contro lo miseria e, aiutato da amici che ammiravano il suo talento e compiangevano le sue sventure, venne nominato direttore di una Società Filarmonica e organista nella chiesa francese di New York, dove potè eseguire e dirigere musica sua. Pareva che finalmente un periodo di pace operosa e di serena tranquillità si aprisse per il tormentato patriota, tutto dedito al lavoro e all’educazione musicale della sua piccola Silvia, ma lo morte lo sorprese nell’agosto del 1846.
Nel 1866 la salma fu riportata in patria e tumulata con grande onore nella città natale.
RIP
Condivido e approvo quanto detto da Anna ed è proprio come voler catturare la Luna con una rete,+ o – grande che sia!
non so… ma è con sorridente amarezza che mi ritrovo a leggere questo ennesimo post…capisco il sorridente forse un po’ meno l’amarezza. .. Blocco. Color bianco. …. quel famiGliari con la g è un tocco di modernità vero vero… ma mi perdo nella platea di voyeur. Sto guardando cadaveri, dico a me stessa. Recito ad alta voce un mantra voodo. Ed ecco gà Saragat che si scioglie dalle bende… Quanto vorrei uguagliare i gangli profondi della sua pulsionalità animale.. sua di chi? Non so… tra i i resumati ho un rossore di scelta. E’ la cuperosi, peut etre, ma con l’accento circonflesso.
Il film mi scorre all’indietro con la pacatezza di una moviola.. l’idealtipo , però , mi esce dallo schermo, quasi una piccola bottega degli orrori…Penso AI zambetti….il zambetto. Che vendono alla bancarella dietro l’angolo assieme a lupini e bruscolini… siamo in crisi, infatti…e il diminutivo è d’obbligo.. Scanso Sallusti, ma mi avvicino festosa all’abate Faria e Maroncellli… Ho una rosa tra i denti.. è di plastica ed è senza spine..
Sempre un piacere leggerla, signora Lombroso. Tengo alzata la tela.
Alla prossima
Francesca Gatti