Tutti insieme appassionatamente, il remake italiano del vecchio polpettone cinematografico è in produzione: Pdl e Pd sono allarmati all’unisono per l’Ilva. Il blocco della produzione stabilito dal gip per permettere il risanamento di uno degli stabilimenti più inquinanti dell’emisfero nord è, a sentire questi eroi delle chiacchiere, “illogica e irrituale”. E dal loro punto di vista hanno perfettamente ragione: logico e rituale sarebbe tacere prendersi il cancro e tacere, cullati dalla nenia delle “responsabili” dichiarazioni dei politici.
Certo la chiusura pone dei grandi problemi, ma a questo si è arrivati proprio perché la politica, in tutte le sue ramificazioni, per 24 anni, da quando lo stabilimento è passato in mano ai Riva, non ha mosso un dito, ha lasciato che l’ambiente fosse degradato, non ha agito perché la proprietà investisse in tecnologie e in sistemi più puliti, ha fatto dell’Ilva di Taranto un mostro protetto e intoccabile, quasi un’allegoria del disprezzo e della noncuranza nei confronti del mondo del lavoro che ha finito per coinvolgere e travolgere l’ex sinistra, compresa quella sindacale. Arroganti con i deboli e sottomessi con i forti, famelici di ricompense per il loro silenzio e la loro inazione, ora dalle più disparate località di vacanza i colpevoli fanno partire la macchina maleodorante delle dichiarazioni.
Ma non ci sono scuse: il caso Taranto pur estremo nel tragico baratto tra malattia e lavoro, non è altro che un’allegoria del modello di non sviluppo che ci portiamo dietro da oltre due decenni e che è alla radice del declino: pochi e ambigui controlli, strizzate d’occhio alle prassi più oscene, regole esistenti solo alla carta, cedimento a un capitalismo che dopo aver approfittato dell svendite di stato, non ha avuto nessuna intenzione di metterci capitali. Qualcosa di riconoscibile a vista dalla piccola azienda dove la sicurezza sul lavoro è una bestemmia, alla Fiat marchionnesca dove gli unici investimenti sembrano quelli sulla vescica degli operai: un laissez faire divenuto libertinismo industriale nel quale la politica e non solo quella berlusconiana, si è mossa a suo completo agio. Però basta ripercorrere la storia degli ultimi cent’anni per accorgersi dell’importanza che il rispetto delle regole e dei diritti per i quali si è lottato, hanno avuto sull’evoluzione tecnologica e sull’innovazione: quanto più è difficile agire su salari e orari tanto maggiore è la spinta a investire in tecniche innovative che aumentino la produttività. Non è certo un caso che i Paesi più industrialmente più evoluti siano quelli con salari più alti e/o, con vivaci battaglie sindacali come in Corea o con forme istituzionalizzate di concertazione azienda-sindacati come in Germania e in parte in Giappone. Non bisogna lasciarsi ingannare dai grandi Paesi emergenti dove le situazioni stanno rapidamente mutando pur essendo stati l’esercito di riserva per molti anni. Così come non è un caso che tra i Paesi Ocse siamo quelli con le retribuzioni più basse, ma anche con la crescita più bassa.
Così l’idea di aver chiuso tutti e due gli occhi sull’Ilva è stata una pessima idea sotto tutti i punti di vista. Lo stabilimento nato come cattedrale nel deserto nell’ambito della cultura dell’industria pesante, divenuta cattedrale di un posto-un voto e poi cattedrale svenduta ora è diventale cattedrale sconsacrata di un modello defunto al quale tuttavia si attaccano le prefiche tecniche e politiche che non lo vogliono abbandonare o non sanno come farlo. Già, è illogico e irrituale. Come se non lo sia stato contrapporre ambiente, salute e lavoro che è invece proprio il tema centrale dei prossimi decenni. Senza se, senza ma e soprattutto senza questi reperti del nulla che proseguono di dichiarazione in dichiarazione verso il fallimento loro e del Paese.
E’ un esempio di come è stata svenduta l’industria di stato ad azionisti senza capitali sufficienti a gestire l’attività. Nel caso di Autostrade abbiamo una rete che chiude d’inverno perché non hanno i mezzi per far funzionare la rete quando piove o nevica; hanno mezzi di pagamento identici a quelli in uso negli anni ’70, con disservizi e code ai caselli. Nel caso di Telecom abbiamo una rete obsoleta che sopravvive solo perché è un monopolio, ma gli azionisti hanno pensato a remunerare il capitale, ma non a sviluppare il business, così abbiamo gli impianti telefonici più antichi e piu costosi d’Europa. L’ILVA è invece una tragica realtà perché i mancati investimenti hanno creato un danno ambientale gravissimo che sarà difficile affrontare anche ad impianti spenti. Ma si fa sempre lo stesso ragionamento come per le banche: troppo grande per fallire, quindi il peso del danno di imprenditori incompetenti va a gravare sull’intera comunità. Ed i politici si chiamano fuori mentre sono i primi responsabili dello sfascio.
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Oltre a ciò che dicono gli squalificati partiti Pd e Pdl ,vicendevolemte ex maggioranza ed ex opposizione, fa specie sentire parlare il presidente di quella fabbrica della morte che è l’ILVA chiedendoci come ha fatto a diventare tale, saltando da pubblico funzionario a privato dirigente.