Anna Lombroso per il Simplicissimus

Lo spettacolo continua anzi non è mai stato così fiorente.  Il set televisivo poi sembra proprio vocato alla rappresentazione  liturgica della sofferenza, del disagio, della “perdita”. Ieri sera il post -brechtiano imbonitore della piazza della 7 ha messo in scena il “lavoro” nella società nella quale è proprio il lavoro il grande assente, la fabbrica come era e intorno alla quale il  corpo sociale si  rappresentava e riconosceva e la fabbrica come è oggi  fuori della quale la massa spaventata e adirata sembra tremendamente sola e incompresa. Devo proprio essere sempre più acida e disincantata si vede, se mi sono sentita così offesa dalla  narrazione ottocentesca coniugata con la spettacolarità postmoderna e cinica del bravo presentatore che incitava le operaie a mostrare le loro mani –  brune e forti come quelle di jeanne marie al gran sole carico d’amore? – in un trailer della disoccupazione e della disperazione già in programmazione in tutta Italia. Dando spago nello stesso tempo a quell’anima buona di Sezuan del gruppo Todini: 60 iniziative all’estero, come da sito della casa,  perché qui lo Stato non li aiuta abbastanza, e una finanziaria,  perché non sia mai che rinuncino al gioco d’azzardo dell’economia immateriale, a corollario del vibrante videomessaggio della ministra del Welfare: ” Le imprese non lascino il Paese”, sottintendendo “per favore”.

Si devo proprio essere una schizzinosa disfattista se in tutto questo leggo il penoso regresso dalla repubblica della cittadinanza alla  monarchia della sudditanza, ben interpretata dal patriota  Cazzullo dal quale possiamo aspettarci una biografia  autorizzata di Marchionne, intitolata “Incompreso”, contributo agiografico alla beatificazione  del peggior manager degli ultimi 150 anni.

Gli stessi che davano retta al tandem scriteriato Berlusconi-Tremonti: il Paese è sano, le formiche si salveranno, la crisi non c’è o se c’è stata è già passata, adesso fanno gli investigatori delle colpe e delle responsabilità, che sono naturalmente dello Stato, della politica, anche, perché no? degli italiani, mai di industriali profittatori, accidiosi, sleali con il Paese e fedeli allo slogan della loro bandiera: più profitti meno investimenti. E si stringono intorno a soluzioni indicate e praticate da chi ha prodotto il male, perché il regno della necessità deve opportunamente avere il sopravvento sul regno della libertà e dei diritti.

 La politica è  arretrata, il coraggio è arretrato. E siamo tornati indietro tutti. Sono arretrate le conquiste, cancellate insieme al lavoro, inteso come un mondo, quello dei lavoratori che tanta centralità hanno avuto nel ciclo della modernità industriale come protagonisti della vita economica e produttiva ma anche come soggetto sociale e politico, fulcro del sistema di diritti e istituzioni rappresentative, quelle che hanno definito le linee di fondo del nostro modello costituzionale di democrazia, che proclama che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro.

E dire che eravamo entrati nel nuovo secolo che minaccia di essere sinistramente breve, con la convinzione di esserci lasciati alle spalle il peggio: l’oppressione dei totalitarismi, l’astrattezza delle ideologie, la rigidità del fordismo, affacciandoci su un tempo di abbondanza e libertà. Tanto da illudere che grazie al sapere e alla tecnica, la fatica fosse superflua per la creazione del benessere,  mentre restava il “lavoro” che conquistava nuove aree geo economiche e nuovi mercati con un esercito smisurato di corpi impiegati in una “illimitata trasformazione della natura in merci”.

Ed è vero, si lavora di più, in più, ma in Italia “a meno” e con meno diritti e garanzie.

Ma il lavoro come fondamento dell’identità collettiva , come protagonista della vita civile, è oscurato, l’uomo che sta dietro le macchine è eclissato. Terminato, verrebbe da dire proprio oggi. Col corpo espropriato del lavoro, ci tolgono l’anima, la dignità e i diritti, anche quello al riposo per godere le “delizie della vita”.