Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ma non eravamo la nazione formichina? Non ci avevano detto che la specialità italiana e la vera scialuppa di salvataggio dalla crisi globale era il risparmio della famiglie, oculate e moderate? Invece, l’indebitamento medio delle famiglie italiane “ha raggiunto i 19.198 euro” e rispetto al 2009 “è cresciuto in termini assoluti di 3,268 euro”.
A livello provinciale le difficoltà maggiori sono a carico delle famiglie residenti in provincia di Roma (debito pari a 27.727 euro), seguite da quelle di Lodi (27.479) e da quelle di Milano (27.241). Al quarto posto la provincia di Prato (25.912), al quinto Varese (25.085) e al sesto Como (24..608). A vivere con minore ansia la preoccupazione di un debito da onorare nei confronti degli istituti di credito o degli istituti finanziari, sono le famiglie del profondo Sud: in coda alla classifica nazionale troviamo Agrigento (8.983), Enna (8.399) e, all’ultimo gradino della graduatoria, la provincia sarda dell’Ogliastra (7.952).
Il ritratto di famiglie in emergenza disegnato dalla Cgia di Mestre rivela che l’indebitamento è causato principalmente “dall’accensione di mutui per l’acquisto della casa, dai prestiti per l’acquisto di beni mobili, dal credito al consumo, dai finanziamenti per la ristrutturazione di beni immobili”. Non occorre grande intuito per interpretare questi dati: oltre all’indispensabile per la “sopravvivenza” gli italiani cercano qualche puntello per l’impalcatura fragile delle loro certezze, per dare una solidità più virtuale che reale al futuro loro e dei loro figli, già eroso nella prospettiva e nelle garanzie. Suggeriamo modestamente alla Cgia di effettuare una ricerca sulle case “espropriate” dagli istituti di credito per insolvenza di quei mutui, così avremo una diagnosi ancora più disperata e attuale di questo “poveri noi”. E dell’insipienza criminale di questo governo che ora rivela anche a quelli che trovavano desiderabile essere illusi a morte, il suo disegno di cieco profitto e si ottusa incapacità perfino nel perseguire il suo interesse particolare. E della controrivoluzione passiva, la defezione dal suo ruolo, di un ceto imprenditoriale che ha amministrato il clamoroso vantaggio competitivo accumulato nei confronti della propria forza lavoro piu’ con una logica da rentier parassitaria e assistenzialistica che di impresa.
La localizzazione geografica e territoriale del debito poi lascia intendere che se la classe operaia non è andata in paradiso anche il ceto medio sta assaggiando l’inferno. Questo fotogramma della nuova “indigenza” permette di capire meglio questa Italia opaca nei movimenti profondi, nel suo morale e nella sua morale, sempre meno decifrabile con le tradizionali categorie dell’indagine politica e mostra quanto sia debole la base su cui poggia l’intera piramide sociale: lo zoccolo duro più spesso e esteso su cui dovrebbe reggersi tutto il peso. E quanto precario e incerto sia, con il confine tra salvati e sommersi troppo mobile e fluttuante per assicurare una qualche stabilità sociale e esistenziale. E ci dice anche quanto contraddittoria e ingannevole sia stata la sedicente modernizzazione distante anni luce dalla luccicante rappresentazione che ne è stata data dalla narrativa allucinatoria e programmaticamente ottimistica berlusconiana ma anche dalle retoriche progressive della sinistra che hanno sostituito il produttivismo migliorista.
Siamo declinati mediocremente e tristemente credendo di crescere. Siamo discesi illudendoci di crescere, per restare nell’ambiente marinaro caro al ministro dell’economia che dovremmo chiamare della rapina e del debito, credevamo di stare a galla e invece andavamo a fondo. Mentre la grande illusione mediatico-politica ci collocava prima nelle sfere alte della graduatoria europea per benessere e capacità di produzione, oltre che per coesione sociale, per la combinazione cioè di quegli ingredienti che dovevano più tardi confortarci sulla salvezza dalla crisi, precipitavamo tra gli ultimi – vittime annichilite da cattivi persuasori ben poco occulti – affondati in questo processo di decostruzione di antichi valori. Toccati in verità solo da un benessere veloce da centro commerciale, abbiamo avuto la rivelazione che invece siamo”declassati” nel mondo grigio del fine mese, dell’insolvenza, della perdita.
Che è una perdita di sicurezza economica ma è anche la privazione morale di un’aspettativa che credevamo meritata e legittima, ora tradita, e che trasforma la speranza e l’attesa di futuro in incertezza, in domanda di risarcimento, in sensazione amara di un fallimento individuale e collettivo. Ci stanno trasformando in un popolo-vittima impegnato solo sul fronte della sopravvivenza come quei topolini in gabbia che corrono ansiosamente sulla ruota. Tutti abbiamo perso qualcosa, la dimensione dell’appartenenza alla polis, già friabile, un antico mestiere o uno status legato a un ruolo produttivo evaporato nei processi di ristrutturazione, una identità sociale legata al territorio, colpita da uno stravolgimento dell’ambiente intorno reso irriconoscibile ai suoi abitanti sottoposti alla prova dello spaesamento, in un paesaggio urbano diventato straniero, refrattario all’abitare ostile alla coesione e alla solidarietà.
Così è facile che si ceda al ricatto e si scelga l’ossimoro di una sicurezza iniqua contro i diritti e del lavoro a ogni costo contro i suoi valori. E che si preferisca un presente mediocre ma conosciuto a un futuro ignoto probabilmente difficile ma vivo e fattivo. A questa classe dirigente abbiamo firmato delle cambiali in bianco e sono loro ad essere in debito con noi. Ma la loro ricchezza promessa non è benessere come la loro gestione del potere non è buon governo. L’uno e l’altro dobbiamo riprenderceli, pena una terribile povertà.