Anna Lombroso per il Simplicissimus
Non è un caso che di tutta la messe di idee e riflessioni che dobbiamo a Gramsci l’unica che serpeggia con incredibile vitalità sia quella che esprime l’odio per l’indifferenza. Sarà a fini apotropaici, sarà per chiamarsi fuori, quando sarebbe più appropriato il ritratto quanto mai attuale degli usignoli dell’imperatore, sarà per confermare l’appartenenza a una aristocrazia della sensibilità e della militanza, preferibilmente apocalittica.
Ma la diagnosi sull’indifferenza male del secolo, sarebbe congrua se in realtà la nostra contemporaneità non fosse segnata di più dall’invidia, dal risentimento, dall’inimicizia, sentimenti per certo molto passionali, ancorché assimilabili alle cosiddette passioni triste. Invece è certamente vero che rappresenta un tratto della nostra autobiografia nazionale, esaltato in questi tempi dalla riaffermazione, suscitata anche ad arte, dell’istinto a non sapere e non vedere per soffrire meno, per non impegnarsi, per delegare ad altri, tecnici, presidenti deliranti di onnipotenza, antagonisti professionali dediti a purghe e processi da buio a mezzogiorno intentati contro chi tenta invece di guardare e dire contro eccessive deleghe, salvo poi brontolare, bofonchiare, lagnarsi, come si diceva ieri, con un pianto italiano che si produce nel chiuso di case, davanti al web, poco in piazza e sempre meno in cabine elettorali.
Ieri un’anziana signora si è sentita male in spiaggia, è morta e è rimasta là in attesa di essere rimossa e conferita, coperta da un sudario, in mezzo a ragazzi che giocavano coi racchettoni, coppiette che si spruzzavano sul bagnasciuga, bambini intenti a castelli di sabbia. Certo è un’immagine simbolica: gli anziani sono già invisibili, figuriamoci da morti, meglio rimuoverli dal nostro paesaggio, che per carità non ci prefigurino quello che ci accadrà, non disturbino le nostre brevi vacanze sabbatiche dalla crisi, come i cani abbandonati in autostrada. Proprio come il ragazzo di 19 anni, morto annegato e rimasto là per ore in attesa del medico legale, anche lui corpo nudo, invisibile già prima, un immigrato marocchino del quale i giornali sdegnati a intermittenza non citano nemmeno il nome, che è un di più quando si tratta di marginali, invisibili anche loro, da rimuovere, come i vecchi, i malati, i disoccupati che si sottraggono alle statistiche dell’ istituto del ministro del Lavoro che non sapeva conteggiarli, come gli stipendi dei parlamentari, come i poveri che stanno nascosti la domenica e li indovini dietro alle finestre del cortile, vergognosi della nuova miseria.
Meglio lasciarli soli, in mezzo alla gente, che è il modo più crudele di essere soli. Come hanno lasciato soli quelli che avevano previsto l’abisso dove si veniva condotti, quelli del referendum della Fiat, quelli che protestavano contro le opere pesanti e inutili, quelli che rivendicavano il diritto di parola con referendum traditi, quelli che si ribellavano alla mafia e denunciavano la criminalità in guanti gialli.
Meglio girarsi dall’altra parte, coprirsi gli occhi magari con i Ray Ban specchiati, ultima memoria di passati opulenti consumi. L’odierna indifferenza è fatta così, del non voler vedere, non voler sapere e assomiglia a quello che vorrebbero farci diventare malgrado il villaggio globale, l’accesso alle informazioni, il primato della comunicazione: pecore cieche condotte a vari tipi di macello, cavalli bendati che trascinano macchine di guerra, schiavi silenziosi che avanzano nei sentieri dell’ubbidienza, appagati dai loro begli occhiali neri.
“Quella combinazione di scetticismo, iperrealismo, nichilismo…” (tolgo egoismo che non ha molto senso in questo contesto) ha una tradizione di 2500 anni e il neoliberismo non ha nessuna relazione con essa, ma proprio nessuna, nemmeno lontanamente. Nemmeno io credo ai superuomini, piuttosto vedo insetti dappertutto, e la boria mi infastidisce, così come gli ego ipertrofici. Io non capisco perché lei associ le due cose, di sicuro non è il mio caso.
Tenga conto che i fumi di Taranto hanno ucciso persone a me care, giacché io vengo la dì e anche io sto morendo come loro. Inoltre, sono un disoccupato, senza soldi, il cui unico capitale sono i libri che ha letto e le persone che ha incontrato. Io vedo il mondo dei miserabili da dentro e da dentro elaboro le mie analisi. La invito a convincersi che una filosofia dell’assoluta lucidità non deve avere secondi fini che non siano lo smascheramento delle illusioni e soprattutto non è necessariamente indicativa di una personalità fredda e spietata. Di sicuro, nuovamente, non è il mio caso.
Contrariamente a quanto lei pensa, io sono in assoluta minoranza. Questo la rassicuri: c’è molta più gente che condivide il suo punto di vista rispetto al mio.
Saluti.
un pezzo sul blog – e noi ne maciniamo parecchi – non serve a incartare le scarpe da risuolare e, malgrado la memoria da elefante della rete, dura un tempo brevissimo e il giorno dopo è già obsoleto. Comunque vengo meno a una consuetudine cominciata con la mezza età e che consiste nell’interrompere i botta e risposta “celibi” con chi usa il dialogo come esercitazione autoreferenziale, soprattutto se è nello stile dello zeitgeist contemporaneo, quella combinazione di scetticismo, iperrealismo, nichilismo, egoismo che chiamano modernità, e che, mi ripeto, appartiene al filone di pensiero forte neo liberista, secondo il quale ragion di mercato e di competitività legittimano accondiscendenza ai diktat del profitto, dell’economia informale, della necessità, del sussiego nel guardare gli altri proprio dell’entomologo schizzinoso. Non mi piace e non mi appartiene questo disincanto immorale, che porta ad accettare tutto, non mi riconosco nell’uomo superiore di Hofmannsthal e nemmeno nel Cacciari dello Steinhof, in mancanza d’altro guardo alle stelle polari antiche dell’uguaglianza, della solidarietà, della libertà, penso ancora che “l’umanità è essa stessa dignità”, ossia che l’uomo non può mai ridursi ad essere trattato dall’uomo stesso come un semplice “mezzo” e che è al di sopra di ogni prezzo”. Per questo ho a cuore rispetto e dignità, che riservo a vivi e morti, magari con qualche eccezione perché la faziosità è un istinto irriducibile e una tentazione irresistibile. Mi sembrava di essermi spiegata, anche nel dire che essendo d’accordo con Hirschman sull’impossibilità della felicità privata nella pubblica infelicità, da tempo rido meno – e non ho mai giocato a racchettoni , che mi succede di sentirmi addosso il dolore laico della com-passione più che della cristiana pietas per vivi e morti, per i sempre più poveri e i sempre più marginali, per gli sfruttati dei quali faccio parte e beato lei se invece è immune da questo peso umiliante. Dico anche i bambini morti di cancro di Taranto in ossequio alle ragioni del profitto più rapace mi suscitano più pena della signora morta da sola sulla spiaggia di Formia, che forse gli immigrati annegati nello Stretto sono un peso più oneroso del ragazzo marocchino. Si vede che le disuguaglianze ispirano anche graduatorie del dolore e della comunanza. Il suo burbanzoso dileggio dell’augurabile processo di umanizzazione della vita sociale se non è strumentale a quel pensiero tossico, è infantile nella perseveranza di essere provocatorio. Senza pensare che la razionalizzazione sia sempre strumentale, tecnica e riduttiva, non basta però a regolare l’ambito delle responsabilità e delle scelte, di vita e di morte, appunto, che anche su quella subiamo ingerenze e invadenze lesive della dignità e della libertà.
Noi esseri umani viviamo in un qualcosa che consideriamo realtà e cerchiamo di interpretarla sia per sopravvivere sia proseguire la nostra specie, ma non solo: a volte cerchiamo la felicità nostra e altre volte ancora anche quella altrui.
Anche il concetto di felicità, come è evidente dal fatto che raramente coincide con quello di altri, è soggettivo. Tanto più soggettivo tentare di interpretare cosa potrebbe pensare chi non appartiene più, almeno per quanto i nostri sensi ne sanno, alla nostra “realtà”
Crediamo inoltre che la scienza ci fornisca certezze oggettive, ma gli scienziati stessi premettono “secondo il nostro modello matematico” oppure “in base all’esperienza e fino a prova contraria tutto lascia ritenere che… ” e altre formule simili.
Non so se sia sensato cercare certezze dove non possono esserci. Però penso di poter dire che un sentimento (e sottolineo sentimento, non parlo quindi di filosofia scientifica né di teorie elaborate scientificamente che poco sanno della morte e della vita) comune unisca, anche attraverso i secoli, milioni di persone che riflettono sulla morte o onorano anche i corpi dei defunti. Questo sentimento e questi sentire, spesso diversi, non si esprimono tutti nello stesso modo; ma solitamente sono improntati ad una pietas laica e a volte religiosa. Sono scelte? sono bisogni? E allora che senso ha inalberarsi o pretendere di fornire interpretazioni logiche su un argomento rispetto al quale la logica non può andare oltre le apparenze registrate dai sensi?
Gentile signora, lei ha tutte le ragioni. In base alle medesime, ho voluto contestare l’identità che l’articolista ha istituito fra l’atteggiamento tenuto davanti ad un cadavere e la sensibilità di ciascuno, sia rispetto ai vivi, sia rispetto alla comunità in cui si vive. Siccome parto dal presupposto, forse errato, che ciascuno afferma qualcosa in base agli argomenti di cui dispone, mi sono permesso di chiedere conto di quegli argomenti, contrapponendone altri. Come si è visto, non ho ottenuto molto successo. Ma questo non è importante.
Se si scrive un articolo e si lasciano i commenti aperti, probabilmente si accetta l’idea che qualcuno possa obiettare a quanto scritto nel post. Se poi non si vuole rispondere, il che è legittimo, almeno non si usino argomenti ad hominem, che puntano sull’interlocutore e non sui suoi ragionamenti.
Infine, ciascuno ha la scienza della propria coscienza, come disse qualcuno. Nessuno istituisce verità che valgano per tutti. Ma se questo è vero, come lei stessa ammette, allora elaborare definizioni di rispetto, maturità, intelligenza e decenza in base ai propri criteri, anche se sono quelli dell’articolista, non ne certifica la verità. Dovrebbe valere sempre, insomma. Invece tutti contestano che la mia visione è “soltanto la mia visione”, ma nessuno si sogna di contestare all’articolista che la sua visione è soltanto la sua visione. Come mai?
Evidentemente perché subentrano elementi che non hanno a che vedere con la logica, ma con l’emotività. A me sta bene. Ma non mi si chieda di accettare un sussulto come argomento. O un fremito.
Anche lei crede, come l’articolista, che questa mia richiesta sia assurda, fuori dalla realtà, immonda, stupida, senza senso, sciocca e indegna di considerazione?
Saluti.
ci stanno facendo perdere il senso del rispetto offuscando di conseguenza la sensibilita’ verso tutto quello che ci circonda
Ottimo argomento ad hominem.
Affetto da immuno deficienza intellettiva.. passo e chiudo
Ma come sarebbe? L’articolista dice che siamo indifferenti, senza dignità e intelligenza se ignoriamo un cadavere, e lei mi viene a dire di “lasciare a voi l’indignazione”? Ma lo ha letto l’articolo? E ha letto le risposte?
La logica non riscuote molto successo….
Questo signore sopra mi pare possedere un Ego così sovrastante che non si accorge di sparare solo sciocchezze e di infastidire con dei commenti di un cinismo e di una supponenza inaccettabili. Va bene il diritto di replica, ma ci risparmi lo sfoggio delle sue presunte verità.. Lasci a noi comuni mortali la possibilità empatica della indignazione, senza arrovellarsi in sterli disquisizioni e sofisticherie. Grazie
Non mi dica che in nome del disincanto greco o orientale
assume il nome simbolico di Utopie per insetti, poi nega
un minimo di vocazione utopica agli umani?
Sarebbe quel minimo di vocazione utopica degli umani che
fa fermare un vivo di fronte a un morto, anche se non
si erano mai visti prima.
Anche quello con un cadavere è un incontro.
Se il vivo si fa indifferente a quell’incontro e lo ritiene un
inciampo al normale scorrere dei suoi gesti, forse quei gesti sono
solo simulacri di vivacità.
Le Utopie sono la riduzione dell’uomo ad insetto, a guisa di imenotteri. La lucidità è l’esplosione delle utopie. La verità, in fondo, è il residuo di tutte le distruzioni.
Mi diverte questa querelle sull’incontro col morto, da parte di persone che, presumo, continuino a vivere e a rallegrarsi nonostante la morte uccida ogni istante in ogni luogo dall’alba dei tempi.
Ciò mi lascia credere che la sensibilità sia confinata all’incontro fisico con la carcassa, che come risposta umorale va bene, ma come argomento contro l’indifferenza non ha alcun valore. Inoltre, tale atteggiamento segnala una parzialità evidente e una discriminazione fra morto qui e morto lì, morto in spiaggia e morto a casa, morto davanti agli occhi e morto lontano dagli occhi. Eppure la morte è una sola.
Questa storia, inoltre, accennata ma Mariaserena, che la morte sia forse revocabile, che non ne sappiamo nulla, che “chi lo sa cosa accade” mi sta anche bene, ma qui si confonde il cadavere con una pretesa anima, forse, che gli sopravviverebbe. Questa gente dubita di tutto, salvo poi seppellire i propri morti sotto terra. E se soffrissero di solitudine e provassero terrore, la sotto? Confinarli sotto terra, non è una mancanza di rispetto? Che ne sappiamo noi? La signora si impegna a protestare dopo ogni inumazione? Picchetta i forni crematori? Si incatena agli obitori, per evitare che bisturi senza cuore aprano toraci e crani in autopsie indelicate?
Ma qui, come detto, siamo fuori tema. La questione è: dobbiamo smettere di giocare davanti ad un morto? No, non per forza, non ne vedo la ragione.
Non c’è nessuna relazione fra l’atteggiamento davanti ad un cadavere e quello che si tiene tra i vivi. Usare l’indifferenza per una carcassa come prova della nostra sensibilità sociale è ridicolo. Trarne una sociologia, poi, è grottesco.
Mi chiedo se non vi siano affermazioni che danno sicurezza solo a chi le fa.
Alle affermazioni ritengo preferibili le perplessità, i dubbi, l’interrogarsi che, al contrario delle espressioni di perentorie certezze, aprono le porte al confronto, al pensiero,al dialogo con l’altro.
Ognuno ha il diritto di chiedere di essere ignorato, prima, durante e dopo la morte. Ma ognuno ha altesì il diritto di pensare esattamente l’opposto.
Non c’è un briciolo di dimostrazione scientifica nel pensare di potere interpretare (quale che sia) cosa sia, se pensi o no, se soffra o meno un cadavere.
Potremmo al massimo dire che allo stato attuale, stanti le nostre conoscenze ed esperienze, non ne sappiamo nulla di definitivo.
Ma era questo il punto? A me sembra di no, a me sembra che queste illazioni siano del tutto off topic e non spostino la questione.
Anche il dire che la morte sia un processo naturale assurto a terribile propone solo una interpretazione di un fenomeno, come tale l’interpretazione è soggettiva dunque rispettabile ma non dimostrabile.
Condivido dunque interamente quanto scrive Anna Lombroso; come lei mi sorprende l’indifferenza che emerge anche dall’episodio di cui si parla e cerco di interpretarne il senso, nel testo di Anna non scorgo proclami che propongano presunte verità ma leggo l’espressione di dubbi e pensieri che si aprono agli altri.
Come tali li considero un dono di cui ringrazio.
I cadaveri, del rispetto, non sanno che farsene (sono morti, per l’appunto). E non capisco da quando un processo del tutto naturale – la morte – è assurto a paradigma dell’ingiusto o del terribile. Forse quando sono arrivati i cristiani. Di certo i Greci e gli Orientali avevano una visione molto più disincantata.
E comunque, per non naufragare nei massimi sistemi, la morte, emotivamente devastante, è in effetti banalissima, come lo è l’esplosione di una stella. I parenti piangano pure, mi pare normale. Ma che quelli sulla spiaggia dovessero mettere il muso mi pare eccessivo.
Condivido quanto ha detto Dario prima di me: se muoio in luogo pubblico, ignoratemi pure. In fondo, un morto non se la prende.
In questa triste storia la cosa più macabra, e lo dico registrando l’impatto della lettura, non è il corpo della donna, ma sono le opinioni di chi liquida la morte come un evento banale. La realtà, e non il moralismo, insieme alla storia e alla vita ci dicono e sbattono in faccia che il nostro destino comune è la condizione umana, e che essa comprende la morte. Il fatto che sia insita nella condizione comune non implica ovviamente che si possa considerare un atto della vita quotidiana come bere, respirare o mangiare.
Molte azioni si compiono quotidianamente, ma si muore una volta, e quello che accade nel tempo che precede e segue può lasciare qualcuno indifferente, ma non lo è per tutti.
La pietà umana ci rende diversi rispetto a coloro che non la conoscono. Questa diversità implica rispetto per i vivi e per i morti; alcuni di questi ci mancano, di altri non sappiamo nulla: e con questo? Non siamo diversi da chi muore, non siamo immortali, non siamo esenti da dolore.
In questo periodo anche io ho sempre meno voglia di ridere anzi mi chiedo davvero cosa ci sia da ridere e come ci si possa consolare con un racchettone o una birretta. Accettare la morte e mostrare indifferenza non sono la stessa cosa. Voler sostenere che la morte produce vita (o viceversa) è solo una interpretazione di fenomeni, non è detto sia una definitiva verità
Va bene, abbiamo capito com’è l’andazzo….
oh santo cielo non avevo capito che dovevo risponderle contrapponendo il mio bignami di filosofia per il terzo anno al suo..no, purtroppo non sono all’altezza, vado a informarmi su Wikipedia. Saluti
Rilevo che non ha nemmeno tentato di argomentare.
Che è esattamente quello che chiamo moralismo, senza alcuna intenzione di offendere ma come termine tecnico: sostituire alla lucidità i fremiti.
E che c’entra il neoliberismo (addirittura!), dottrina non meno stupida delle altre? E che c’entra Schopenhauer, il quale indentificò nella volontà cieca e amorale la forza che muove il mondo e la compassione come residuo intellettuale di una reazione alla necessità della prima (tra l’altro, come fondamento metafisico e non come principio di condotta, vedi “Il fondamento della morale” e “Parerga e Paralipomena” e i suoi riferimenti al Vedanta e al Buddhismo, di cui fraintese molto)?
E che c’entra essere schiavi? Si può argomentare facilmente che i sentimenti sono catene quanto i pregiudizi dell’intelletto. D’altra parte, anche l’odio “ci colpisce”, non per questo lei elabora una apologetica dell’odio.
E che c’entra la morte, che è la fonte della vita sulla terra, col rispetto? Se gli individui non morissero la specie collasserebbe in un attimo. Lei dovrebbe benedire la morte, che apporta la vita e che nutre altra vita.
La morte dell’intelligenza che altro è, se non il mettere l’intelletto al servizio del cuore, o metterlo al servizio di qualunque altra cosa?
E, insomma, ce lo dica subito così ci rassegniamo: si può contestare quello che lei dice, se lo si trova assurdo o insensato? Ed è terribile aspettarsi una risposta che sia intellettualmente lucida?
Saluti
ma quanta retorica dell’antiretorica e quante sciocchezze, proprio quelle che piacciono ai fan della fine delle ideologie e se coincide con la morte delle idee meglio ancora. Si puzza di neoliberismo tutto questo: dismettere la compassione, quella di schopenhauer, rimuovere solidarietà, condannare la coesione è certo più moderno, dinamico, flessibile, adattabile.. Abituarsi a convivere con tutto in modo che niente ci colpisca più è proprio l’aspirazione di chi vuole degli schiavi, degli automi non pensanti. Non so lei ma in effetti io ogni giorno di più ho sempre meno voglia di giocare e ridere, per la troppa morte intorno, anche quella dell’intelligenza, della dignità e perfino del rispetto, che personalmente esigo e desidero per gli altri.
Mi faccia capire: lei sta sovrapponendo la morale alla lucidità? E in base a quale criterio?
L’appellativo “moralista” è attribuito a chi giustappone considerazioni di carattere valoriale a circostanze che non lo richiedono (come quando gli psicologi attribuiscono l’aggettivo “anormale-malato” ad una condotta, confondendo l’aberranza statistica con una pretesa violazione della normalità).
La signora è morta, come tutti si muore. Da quando la morte, peraltro per cause “naturali”, è diventata un’anomalia dell’esistenza? Sarebbe come deplorare la termodinamica o la gravità.
E che cosa significa “rispetto”? Un cadavere se ne frega delle reazioni dei vivi. Smettere di divertirsi e di giocare perché da qualche parte qualcuno muore mi pare sinceramente incomprensibile. Se lei fosse conseguente, dovrebbe smettere del tutto di giocare e ridere, visto che la gente muore, e atrocemente, ogni secondo, ogni giorno, dall’alba dei tempi. Oppure lei confina la sua sensibilità ai cadaveri che si trovano al di sotto di una certa distanza metrica? O solo a quelli che muoiono in determinati luoghi?
Mi faccia capire.
L’argomento è moralistico e senza senso. La signora era già morta: che importanza ha, per un morto, per una carcassa senza vita, che intorno si giochi o meno a racchettoni? E i vivi, che non hanno potere di riportare alla vita i morti, che dovrebbero fare? E per quanto bisogna astenersi? E quanta gente deve astenersi?
ne scrivevo proprio ieri, è uso corrente dare del moralista a chi chiede a sè e agli altri coerenza morale e dei visionari a chi spera che possa esserci altro rispetto all’attuale morale. Cosa c’è di moralistico nel pensare che vicino a una donna anziana morta da sola in mezzo ad estranei appunto indifferenti, dovrebbe passare la voglia di giocare a racchettoni come fosse un fastidioso rifiuto da conferire in discarica? Che anche quello, anche un rifiuto in spiaggia comunque dovrebbe disporre a una qualche riflessione. D’altra parte anche Erdogan considera eccessivoe poco realistico, probabilmente moralistico, rischiare la pelle e la libertà per degli alberi.. Si decisamente queste manifestazioni di spergiudicato e moderno cinismo puzzano un po’
la provocazione, quello che Arbasino chiama lo snobismo di massa, è una bella tentazione, alla quale personalmente cerco di resistere in tempi così poco morali e così poco civili, perchè va a braccetto con quel pragmatismo, quel realismo molto praticato che ha spento i lumi delle idee e la luce dell’utopia. Di solito chi è così disincantato rispetto al dolore, alla morte e alla povertà è perchè pensa di esserne immune, come dalle grandi passioni. E a me non piace, preferisco essere un po’ arcaica un po’ retorica e viva
quoto Dario, d’altronde questo articolo ha lo stesso scopo della foto di Repubblica.
Personalmente trovo un po’ ipocrita questa critica… allora, ragioniamo obiettivamente: una persona muore sulla spiaggia. Tu che fai? Stai lì per un po’? Te ne vai? Resti a pregare? E quanto, 5, 10 minuti? E poi? Vogliamo svuotare tutta la spiaggia perché una persona è morta? E quanto? 10 metri, cento, un chilometro? Quelli che stanno a 50 metri dal corpo possono divertirsi o no? Fino a che punto la vita si deve fermare? Perché ogni tre secondi muore qualcuno e magari succede nell’appartamento accanto al vostro proprio in questo momento.
Da parte mia, se un giorno dovessi morire su una spiaggia, continuate purea divertirvi e magari fatemi un bel castello di sabbia accanto, perché l’unico vero modo per celebrare una morte è continuare a vivere.
E’ così che si comincia a morire tutti, ma proprio tutti, affogando nella nostra stessa indifferenza..
http://www.dagospia.com/rubrica-29/Cronache/il-morto-in-spiaggia-nellindifferenza-dei-bagnanti-e-un-fotomontaggio-e-uno-scherzo-57855.htm
Odio gli indifferenti, sempre e comunque.