giovanna-melandri-mangia-123976Anna Lombroso per il Simplicissimus

Qualora vi foste domandati sulla base di quali competenze e qualità speciali la Signora Giovanna Melandri fosse stata chiamata a ricoprire il delicato incarico di presidente del Maxxi , eccovi una probabile spiegazione.
Allora il Maxxi, in quanto Museo della Arti del XXI secolo, non promuove solo mostre, peraltro rare e scelte con criteri piuttosto improbabili ed estemporanei, ma si presta a ospitare anche la proiezione di film, visto che è da un bel po’ che il cinema è stato assimilato alle arti, con o senza appropriata musa.
Si attendeva quindi con una certa curiosità la prima di “Girlfriend in a coma” di Annalisa Piras e Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, un cine vèrité che racconta la crisi morale ed economica del nostro Paese e, come si legge sul sito, “mira ad introdurre gli italiani al lato oscuro del declino politico, economico e sociale del loro paese, prodotto di un collasso morale senza eguali in Occidente”. Aggiunge Emmott “Diamo uno sguardo alla corruzione istituzionalizzata del Paese, al crimine organizzato, al sistema politico cleptocratico e all’influenza perniciosa della Chiesa – oh, e naturalmente al signor Bunga-Bunga, Silvio Berlusconi, che tante colpe ha avuto nell’accelerare il degrado degli ultimi due decenni”.

Per carità la perfida Albione non può certo fare professione di innocenza in merito al declino dell’Occidente e alla conversione dell’Europa da utopia federale a kapò incaricato del sistema finanziario globale, ma è purtroppo vero che ci meritiamo lezioni di critica e perfino di storia se non siamo in grado di impartircele autonomamente in un paese dove la stampa si imbavaglia da sola, dove si delega la resistenza a Pansa in modo che ne possa sproloquiare anche Berlusconi, dove la più seria ricostruzione del caso l’Aquila si deve a un pallosissimo e autoreferenziale film della Guzzanti.

E infatti, a conferma di tutto questo, la presidente del Maxxi, autorevole membro della dirigenza del Pd, il partito che non ha mai esercitato un’opposizione al signor Bunga Bunga non solo per le sue attitudini sessuali, ma tanto meno per il conflitto di interesse, per l’indole golpista, per la privatizzazione della politica, per le accertate cattive frequentazioni, da stallieri ed eletti in odor di mafia, a ricettatori di opere d’arte, a tiranni sanguinari, ha invece deciso di fare una fiera opposizione a un film.
La sospensione della proiezione, concordata con il sempre inopportuno ministro Ornaghi, è stata motivata senza tanti giri di parole: ”Il Maxxi è un’istituzione pubblica nazionale, vigilata dal Ministero dei Beni Culturali, e, secondo una prassi consolidata e già attuata in altre occasioni, in campagna elettorale non può ospitare manifestazioni che, seppur promosse da soggetti esterni, a qualunque titolo potrebbero essere connotate di valenza politica”.
Ci sarebbe da sorridere della straordinaria identità di vedute che accomuna la Melandri e la “vittima” del documentario, quello che condanna i libri sulla mafia anziché i mafiosi, perché fanno male al turismo, quello che si compra la villetta a Lampedusa per dare legittimità alle più infami politiche di respingimento razzista e xenofobo.

Ma la Melandri fa anche di peggio, aggiungendo alla nota ufficiale: “A me sembra logico e rispettoso della funzione e della vocazione del museo pubblico, mi chiedo tra l’altro se il Louvre o il Beaubourg o la Tate ospiterebbero mai una iniziativa del genere a poche settimane dalle elezioni politiche … è un mio dovere tenere la campagna elettorale fuori dal museo” E per finire: “Noi stiamo cercando Emmott, che pare sia in Giamaica – dice – a tutti comunque abbiamo risposto invitandoli a venire al museo, ma per godere delle nostre mostre, per apprezzare Boetti, Kentridge, Le Corbusier”.
C’è una identità di vedute anche con il leader di riferimento di Berlusconi, quello che nel fare cose buone, diceva “qui si lavora, non si fa politica”. La Melandri non solo esclude la cronaca e l’interesse delle manifestazioni umane e civili degne quanto l’espressione artistica, ma come al solito fa un po’ di quella pedagogia tanto in voga, indirizzando interessi, curiosità, voglia di conoscenza verso una cultura e addirittura un’estetica di regime, ispirata dalla stessa ideologia, quella delle grandi opere invece che della difesa del territorio, quella dei grandi eventi al posto della custodia e valorizzazione dei beni culturali, quella degli sponsor cui dare in comodato le nostre bellezze, anziché favorire gli investimenti nella tutela.

Ecco spiegato allora l’incarico conferito a un presidente, autoproclamatosi “mamma” del Museo, senza titoli ma titolato a seguire l’onda dell’impoverimento e dell’alienazione anche della critica come dei beni comuni, a mezzo della vecchia arma della censura preventiva. E non potevamo aspettarci di meglio dalle “zie”, quel consiglio di amministrazione orgogliosamente definito “tutto in rosa”, come fosse una garanzia promettente di innovazione dell’organizzazione culturale, con una componente che vanta come fiore all’occhiello di essere stata la tuttofare servizievole del molto discusso “mecenate” Pinault, l’altra, di cui si vanta un non meglio identificato master a New York, ma, si direbbe, titolata in quanto erede di una dinastia delle griffe. Sono stati messi al posto giusto, insomma, dei pezzi da museo, ma forse di meritavano quello delle cere.