Anna Lombroso per il Simplicissimus
In questi tempi, privati ormai della gentilezza in favore dell’avversione, dell’amicizia in favore della diffidenza, della solidarietà in favore dell’arroccamento in un isolamento chiuso e ostile, anche il conforto per la “perdita” è sempre più arduo.
E la nostra perdita di futuro che è anche cancellazione della storia, dei legami e dei vincoli costruiti sugli esempi delle tribù, delle famiglie, degli affini, e poi delle città e dei popoli, e dei diritti, delle speranze e delle certezze che vi si riconoscevano all’interno come sacri e inviolabili, avrebbero oggi più che mai bisogno di quelle antiche comunità del lutto, quelle comunità di persone riunite intorno al corpo di un morente o di una persona scomparsa. Comunità che oggi dovrebbero ammansire la ferocia della paura, restituendoci la possibilità di riscrivere il domani, attraverso la riproposizione di simboli, di linguaggi, di desideri immortali.
La morte resta invece il vero insuperabile tabù: “Nel nostro tempo si è proibito il tema della morte come nel secolo scorso quello del sesso, ha scritto lo storico Philippe Ariès: La contingenza, la finitezza, la fragilità, la sofferenza e la morte, come la sconfitta, come ogni tipo di perdita, non fanno parte del quadro mentale dell’uomo occidentale.”
Ma fanno continuamente irruzione, ricordandoci che noi, i nostri sogni, le nostre certezze sono minacciate, effimere, in pericolo. Ciononostante ogni volta che ci troviamo dinanzi ad una perdita siamo disorientati e per lo più soli, mancano spazi e riti per condividere il dolore. E questa solitudine finisce con il rendere i lutti ancora più cronici e patologici di quanto già possano essere. Servivano a quello gli antichi riti collettivi del cordoglio, oggi interdetti, perché ci ricorda il Simplicissimus, l’ideologia dominante non lascia spazio alle passioni e ai sentimenti, che possono renderci “altri” rispetto alle convenzioni, e condanna i comportamenti apocalittici o semplicemente critici alla stregua di trasgressioni o patologie.
Si, per riaffiorare dal baratro del dolore annichilito della perdita, di chi amiamo, ma anche delle speranze, dell’utopia, bisognerebbe scuotersi dal pianto e schiudersi, sia pure con animo mutato e insieme agli altri,- ai doveri della vita, non “morire con ciò che muore” per rialzarsi alla vita, al futuro, alla responsabilità, mutando la rabbia per ciò che ci ha lasciato soli in nuova felicità.
Ma le reazioni vitali, la ricerca della libertà sia pure dal dolore, non piace a che ci vuole in stato di servitù. E infatti la Chiesa ha ostacolato l’esprimersi di un pianto che si liberasse fuori dalle liturgie e dalle cerimonie prescritte, condannando un cordoglio dei sopravvissuti che si svolgesse senza la mediazione del sacerdote, impedendo il lamento del rimpianto che grida incollerito per la perdita incerto com’è della redenzione.
Chissà se è per questo che si nasconde in chiesa il lutto d’amore di un coniuge omosessuale, oppure, come è avvenuto in occasione delle esequie religiose della Melato, si stabilisce il parterre dei dolenti, confinando fuori, sul sagrato, il ricordo e il pianto di chi voleva rammentarne le qualità umane, se il sodale in questione si chiama Bonino. Oppure se si tratti della consueta militanza in uno schieramento conservatore, che rende esplicita e esemplare la riprovazione per inclinazioni non appropriate dalla morale di parte, dello schierarsi “politico” e invadente contro le aspirazioni a comportamenti laici, autodeterminati, indipendenti da un modello di etica pubblica uniforme a un dettato confessionale.
È fin troppo facile ricordare come ci sia ben poco di cristiano e compassionevole nel dettare regole pervasive durante tutto l’arco delle nostre esistenze, condizionando scelte e espressioni che riguardano la vita e l’amore che le dà luce e bellezza e nell’imporre cerimoniali e prescrizioni fino alla fine ed oltre. Ed è fin troppo facile voler persuadere chi vuole essere cristiano e esprimere la propria fede con coscienza e compiutezza, del primato che deve avere la fede della cittadinanza, che è fatta di dignità, espressione consapevole del proprio io, rispettosa responsabilità nei confronti degli altri. E che se questo non viene consentito, allora bisogna uscire dai luoghi della Chiesa e delle sue gerarchie per ricostituire una comunità di credenti che sappia essere anche civile e democratica.
Non è facile vivere una religiosità sofferta perché è sempre più separata dalle gerarchie così come non è facile per i cittadini continuare ad esprimere amore per la democrazia in una società nella quale la rappresentanza è remota e addirittura ostile. Sono le forme mature e consapevoli della laicità, che in tempi di ideologie pesanti come pietre impenetrabili dalle ragioni, dalle idee, dalle utopie, è un’aspirazione e un diritto irrinunciabile.
Il mio maestro di ritmo, un batterista, spiegandomi come si devono intendere le indicazioni poliritmiche, cioè la sovrapposizione di elementi ritmici ternari su strutture binarie, presenti in tutta la musica naturale del mondo, mi ha detto: nella musica occidentale non ci sono notazioni per questo e si devono scrivere dei numeri a margine che rientrano nel novero degli elementi “irregolari”, perchè la chiesa le ha proibite.
In effetti è da lungo tempo che penso che la sbizantinizzazione della penisola iniziata dai carolingi e portata a termine dal potere cattolico ha privato la musica popolare e liturgica di quegli intervalli e ritmi che, come si dice; muovono l’anima.
Lo stesso si può dire dei riti che vengono progressivamente spogliati della loro funzione, (nel senso che funzionavano), e ricondotti a formalità amministrative senza le quali non c’è accesso ad un paradiso sempre più astratto e lontano.
La cosa straordinaria è la dimensione mondiale in cui questa infezione clericalista si è diffusa, fino a condizionare persino il pensiero più laico, che rimane per lo più ancorato ad una borghese sobrietà di espressione e cordoglio.
La negazione della morte, ha come prima causa la normazione univoca della vita, la sua riduzione binaria ad; acceso-spento, normale-anormale, in senso proprio la sua negazione.
Sì, occorre il coraggio di dire:
– Sto ai margini dei luoghi di potere, delle chiese e chiesuole d’ogni tipo.-
Non per rispetto ad una regola che in quei “recinti” è partorita, ma perchè lì non si costruisce solidarietà, non si respira l’aria leggera della gentilezza, non si dipana la matassa della paura. Lì si muore tante volte.
– Sto ai margini, perchè oltre i confini segnati da quei recinti, tutto è largo e profondo, plurale e vero –
– Sto liberamente un piccolo passo al di là e sfioro quel filo che tendete, caso mai aveste un guizzo d’umanità, la mia mano, le nostre mani sarebbero pronte a farvi fare un balzo nell’autenticità: là dove la compassione sorpassa ogni dogma.
Dove c’è amore non ci dovrebbe essere separazione artificiale o deliberata da interpretazione di regolamenti; la contraddizione sarebbe evidente. L’amore che si prova quando si subisce il momento dell’assenza definitiva decretata dalla morte è tale che la consolazione della comprensione reciproca diventa talmente vitale da essere, io penso, un diritto.
Tutto il resto è solo l’amaro della vita; e quando potesse esserci risparmiato dovremmo avere questa reciproca pietas.
Lo penso in termini di reciprocità, di tolleranza non formale. E spero che tante miserie siano cancellate.