Anna Lombroso per il Simplicissimus

Tempo fa, tentata di fare come l’angelo della storia di Benjamin che cammina avanti guardandosi indietro, ho voluto rileggere uno scritto di Vittorio Foa che in nome di una “pace”(non pacificazione) attiva, dinamica, lungimirante, ammoniva di non soffermarsi sul passato: lo sguardo fermo, fisso su un punto del passato fa perdere troppe cose importanti peggiori o migliori che stanno capitando ora. Questa perdita, diceva, è un rischio, perché ti pietrifica in un punto del tempo.

Con tutta l’ammirazione per Foa, non so se avesse del tutto ragione. Sbrigativamente a volte anche ai più illuminati capita di dire che tutto è ormai uguale perché tutto muta in una società in perenne evoluzione.
Ci pensavo oggi. Per spiegare il malessere che mi sta in gola come una lisca di pesce: non mi piacciono le commemorazioni, i rituali che diventano retorica, le giornate che impongono ricordo e riflessione su appuntamento. Con il pericolo di pietrificare appunto il rischio che alberga in abissi dell’uomo, della coazione a replicare il crimine, e di considerare l’abominio una caso eccezionale nello sviluppo della storia.
Si, mi tentava il silenzio. Ma oblio e indifferenza accidiosa sono una patologia quanto mai attuale ed endemica qui tra noi: mantenere attiva la memoria diventa un dovere civile così come esercitare la critica, la vigilanza e la disubbidienza. Tutto può accadere ancora e può succedere laddove l’indifferenza ai diritti va di pari passo con l’acquiescenza all’illegalità, al prevalere degli interessi privato sul bene pubblico, all’affiliazione che si sostituisce alla partecipazione, alla carità che si sostituisce al riconoscimento dei diritti. E dove appunto l’oblio e l’indifferenza trovano la strada del silenzio e della cecità volontaria. Pensiamo alle immagini che fissano la tardiva vergogna dei cittadini tedeschi costretti dagli alleati in nome dell’onore di essere e restare uomini, ad andare in visita ai lager appena aperti, turisti per forza in quei santuari dell’orrore. Si vedono uomini normali, banali come il male, coprirsi gli occhi con il berretto e la bocca con i loro colletti lisi e vecchie sciarpe.
E non è vano chiedersi come l’opinione pubblica, quella degli italiani brava gente, chiudesse gli occhi e si rigirasse nella spirale del silenzio davanti alle leggi razziali e alle persecuzioni, se da noi, nella nostra contemporaneità apparentemente più anodina, è bastata la propaganda di una forza politica xenofoba a replicare la storia recando un affronto alla civiltà alla dignità e ai diritti con leggi- espressione di razzismo di stato. E se la stessa forza politica attua un disegno che ha gli stessi contenuti di esclusione e emarginazione di altri italiani.

La china su cui si muove il nostro Paese è allarmante. Il razzismo all’italiana è “moderno”: va di pari passo con l’ossessione per il territorio, il villaggio, il quartiere come dimensione simbolica del radicamento sociale. E quindi si manifesta come una contrapposizione verso chiunque alteri – facendosi vedere, esistendo, altro dalla “maggioranza” – una stabilità sociale largamente immaginaria. Non è forse legato a uno specifico discorso di discriminazione delle “razze” ma fa parte della geometria variabile del discorso sulla sicurezza, sulla paura del diverso visto come minaccia nei confronti di privilegi acquisiti. E che in virtù di questa connotazione, si intreccia con i modi di una xenofobia mediale ubica e radicata nel discorso politico, che innerva ormai profondamente l’opinione pubblica. Così scivolano presto nell’oblio le deportazioni di stato dopo i fatti di Rosarno, ancora attuali un anno dopo, le misure della Gelmini sull’integrazione scolastica dei minori stranieri, ordinanze di solerti sindaci dediti a emarginazione e respingimenti degli indesiderabili. In Italia una turba di sottoproletariato vagante è posto di fronte a tre possibilità: trasgredire, scegliere l’ubbidienza e l’invisibilità dei suoi diritti, patire l’esclusione.

La nostra democrazia è ammalata, se in un’epoca segnata dal cosmopolitismo, da una richiesta diffusa di riconoscimento delle differenze, quelle differenze esterne e interne vengono penalizzate, condannando senza appello i già sommersi a scomparire definitivamente, a nascondersi, a fuggire perennemente, a trasgredire per disperazione. Oppure per i sommersi in patria a consegnarsi a contropoteri oscuri e criminali. Tutto il nostro mondo contemporaneo è caratterizzato da una iniqua contabilità, moralmente ripugnante quanto socialmente ingiusta: un miliardo di privilegiate unità nei paesi ricchi, tre miliardi nella geografia della scarsità/povertà, più di un miliardo di dannati della terra.

Le ineguaglianze in risorse e opportunità di futuro, di vita, di conoscenza, di speranza tra paesaggi umani del mondo molto troppo ricchi e quelli incomparabilmente più vasti della povertà della carestia si proiettano sulle generazioni future. Così oggi trattiamo come schiavi miliardi di contemporanei e condanniamo alla servitù, alla povertà, alla disperazione le generazioni future.

Allora bisogna promuoverla la memoria visto che il rischio di ripetere abiezione non è virtuale, se gli antichi mostri si ripresentano più risoluti e feroci, se è attuale il rischio che si corrompa irrimediabilmente la “cerchia della socievolezza” e della solidarietà, contaminando ogni ambito della vita di relazione e via via creando inimicizie in un circolo inesorabile che distrugge l’interesse generale e i suoi capisaldi di legalità, imparzialità, cura dell’interesse generale, sostituiti dal primato dell’immunità e dell’impunità. Dalla diffidenza, dalla paura, dal sospetto, dalla chiusura deriva una perdita del senso del futuro così come una analoga dismissione del senso del passato.
Chi vuole dimenticare, rimuovere, negare, vuole condannarci a non ricordare che potremmo rifarlo, a scegliere di non farlo, a non lottare, a rinunciare alla responsabilità e con essa alla libertà.