Anna Lombroso per il Simplicissimus

La virtù politica della democrazia è una rinuncia a se stessi , ciò che è sempre molto faticosa da sopportare, perché questa virtù consiste nella preferenza continua dell’interesse pubblico agli interessi propri”. Montesquieu pensava che il rispetto di sé e degli altri è esposto alla pressione della stanchezza. Pare che la democrazia  stanchi come un lavoro. È faticosa e chi ne è innamorato è soggetto alle delusioni d’amore: l’impotenza a governare con saggezza e equità delle società pluraliste; la rivincita degli interessi corporativi che soffocano l’interesse generale; il potere occulto che contrasta con l’esigenza democratica che il potere si mostri pienamente in pubblico e che ha indotto a parlare di un doppio stato, uno visibile uno invisibile; l’apatia politica; il fanatismo e l’intolleranza; tecnocrazia, burocrazia e finanziarizzazione; videocrazia. L’elenco delle disaffezione è lungo.
Le regole e consuetudini luminose e trasparenti della polis, come l’avremmo desiderata, sono sostituite dalla circolazione di favori prebende, prestazioni ormai sempre più frequentemente sessuali, corruzione e test di fedeltà cui gli ammessi vengono sottoposti apparentemente in un clima leggero e goliardico di compagni di marachelle, ma che nasconde una combinazione di feroce competizione e servilismo, sopraffazione e prepotenza, nella quale padroni e sottoposti – come si vede – sono legati da un vincolo di corruzione e dipendenza, regalie e intimidazioni, complicità e minacce.
Qualcuno, in particolare Zagrebelsky, l’ha scritto magistralmente: la forza delle cricche si alimenta nella disuguaglianza esaltata dalla crisi e nell’illegalità. Crescono quanto maggiore è il malessere sociale e quanto meno valgono regole e leggi.
La democrazia stanca perché, se non è una pratica “contro-natura”, è certo una sfida faticosa: va tenuta sempre viva e alimentata.
Ma disuguaglianza e oppressione dispotica suscitano reazione e ribellione.
I disillusi della democrazia sono tanti ma sono sempre più folte le schiere di quelli che non credono più che quello, organizzato da una classe di governo improvvisata incompetente e sprezzante di regole e leggi, sia una specie di sistema benefico, addirittura una sorta di democratica rete di salvataggio popolare, sono sempre più numerosi quelli che non prendonon più per buone le promesse e nemmeno le minacce di questi padroni con il loro ghigni impudenti e irridenti di ogni principio etico, di ogni regola, della dignità e della libertà.
Proprio la crisi, economica ma anche del loro sistema fondato sulla rapacità e la dissipazione più dissoluta e irrispettosa, ha mostrato la corda di quello che era già un conflitto di interessi.
Qualcuno ha fatto un sogno, magari senza averne la totale consapevolezza, magari suo malgrado. Che è diventato simbolico dello scontro tra i loro interessi personali, di conservazione dei loro infami privilegi, della loro ricchezza fondata su illeciti e disprezzo delle leggi, delle loro alleanze fondate sull’opportunismo e sugli scambi di favori. Contro i nostri, se vogliamo – e dobbiamo rivendicarli – generali e universali, fondati ancora su valori, principi, diritti e libertà.
L’offesa alla dignità del lavoro, l’attentato ai diritti conquistati, il ricatto spregevole sostenuto dall’intimidazione dei potentati, ha il valore simbolico di restituire la speranza di un risveglio, di un riscatto.
Zagrebelsky ha parlato della necessità di “momenti non eroici”.
E Weber molto pragmaticamente ammoniva: chi vuole delle visioni, vada al cinema.
Viviamo in un contesto nel quale vige l’irrisione dei valori morali, la derisione di regole e leggi, in cui chi fa bene il suo lavoro, chi denuncia, chi si ribella sembra costretto a diventare suo malgrado un eroe.
Sembrava circolasse intorno la richiesta di radiose visioni, di poeti, di predicatori, di convinzioni forti.
Invece a Mirafiori abbiamo avuto la battaglia dura difficile di uomini normali che difendevano in un contesto marcio e illegittimo, condizionato da pressioni e minacce, dignità valori conquiste che sono i loro ma anche i nostri. Perché hanno rappresentato come una allegoria un paese che vuole sia un diritto pubblicamente garantito la propria aspirazione a una vita degna.
E ci hanno dato la speranza che arriverà la normalità, quella nella quale non occorre essere eroi, nella quale basta essere gente per bene.
Non è stato un predicatore o un poeta visionario a scrivere che verrà un tempo in cui finirà il gioco d’azzardo dell’accumulo, selvaggio e indomabile, “verrà il tempo nel quale il capitalismo la finirà di inscrivere nella storia l’universalità della sovrabbondanza iniqua e dell’impero del denaro pazzo. E gli uomini scopriranno i veri beni e si dedicheranno a bellezza, sapere,conoscenza, amore”.