Anna Lombroso per il Simplicissimus


Quale organismo modificante può aver mutato in rischio da sfuggire come la pestilenza certi bei doni che gli dei avevano concesso alle donne in cambio di tante penitenze in vita?
Mi riferisco a qualità coltivate in cucine dove girano spiedi e dove fattucchiere buone preparano filtri e pozioni di convivialità e gioia; in stanze di cucito dove tanto si è agucchiato e rammendato; sull’argine di fiumi lavando con la cenere. Luoghi della fatica certo, e ciononostante santuari della trasmissione di accoglienza, cura, amore.
Anche nei tempi del più feroce femminismo fondamentalista avevamo conservato quella ricchezza come un patrimonio di “genere” una specialità – per non dire una superiorità – legata a una intelligenza del cuore, esercitata per la compassione, mossa dall’appartenenza al mondo degli altri.
Pensavamo, e io ne sono ancora convinta, che fosse una chiave di interpretazione che ci dava modo di sentire e cantare musiche di comprensione e solidarietà, in maniera più vissuta e consapevole.

Tanto che avevamo ritenuto potesse essere un dono demiurgico da offrire e condividere con chi, uomo o donna, avesse paura della tenerezza, della passione, di consegnarsi alla dolcezza senza difese.
Il contesto e lo zeitgeist non hanno favorito questo processo di educazione sentimentale.

L’abuso della donna, il ricorso al suo corpo in vendita come merce di scambio, il commercio di favori sessuali come arma di ricatto e poderoso strumento clientelare, diventato una pratica comune a tutto l’esercizio della politica, anzi parte integrante, connaturata e “bipartisan” del sistema e della gestione della cosa pubblica, si sono insinuati e poi consolidati nella sfera “politica”.

Ma un grande danno deve essersi compiuto se allo stereotipo velinaro di questa barbara contemporaneità abbiamo la tentazione di rispondere con un altro stereotipo altrettanto feroce, quello di una donna indurita, semplificata e appiattita sulle cattive abitudini del machismo magari non aggressivo, solo un bel po’ anaffettivo, arido.
In questi giorni vedo girare molti cuori d’inverno che rivendicano odio per la cucina, odio per la convivialità coatta, odio per gli abbracci, odio si direbbe per la dolce debolezza dei sentimenti.
La frase che sento dire di più è “io non cucino” come fosse una virtù, come se lo stare a guardare altri che si affaccendano magari a pagamento fosse un valore conseguito e da difendere, con strenua e algida tenacia, addirittura la cifra di donne e uomini “superiori”.
Si deve essere successo qualcosa di molto triste ed amaro mentre gli innamorati stavano nascosti a amarsi in clandestinità in tempi di proibizionismo delle passioni, mentre la civiltà segnava una indesiderabile involuzione.
Non c’è natale nella mia infanzia laica, non amo gioia e feste a comando, anche io ho una conclamata allergia per l’allegria a comando, i cappellini e le trombette dei veglioni.
Ma comincio a pensare che casseruole, mestoli, tenerezza, amore siano le formidabili armi rivoluzionarie e insurrezionaliste della resistenza di oggi.