Anna Lombroso per il Simplicissimus

Quando si cominciò a parlare di industrie a rischio, dopo incidenti apocalittici, ci fu chi si rese impopolare ricordando come interi quartieri sorti ai confini di aziende inquinanti fossero frutto di una pratica negoziale tra abitanti e enti locali che avevano concesso varianti in modo, si diceva,  da accontentare i dipendenti delle fabbriche tossiche che volevano risiedere vicino al posto di lavoro, si trattasse della Farmoplant, dell’Olivetti, dell’Acna.  

E si citavano pendolari che prima abitavano lontano, madri di famiglia che potevano correre a casa per cucinare un pasto allattare i bambini o badare al nonno arrivato dalla campagna.

In realtà solerti amministratori appagavano i desiderata padronali: molti quartieri satellite erano di proprietà dei patron delle industrie, gli stessi che promuovevano allora asili e servizi privati con l’aspettativa, coronata oggi dal welfare aziendale, dai suoi fondi, dalle sue assicurazioni e  bolle, di sfruttare due volte, che è meglio di una volta sola. Con il risultato di raddoppiare cancro e patologie “professionali”, dentro alla fabbrica e fuori.

E difatti malgrado il passare degli anni, non è cambiato niente a vedere il destino di quartieri e popolazioni condannati a morte, per malattie, per esposizione a agenti inquinanti, oppure per la deindustrializzazione che ha spostato investimenti e produzioni, che gode di impunità e immunità, e perché, comunque, l’occupazione è talmente condizionata da ricatti e intimidazione che ha reso impossibile scegliere tra salute e ambiente oppure salario e posto.  E a vedere come ormai l’urbanistica e la pianificazione siano state definitivamente ridotte a trattativa, contrattazione tra poteri pubblici e interessi privati che alla fine hanno sempre il sopravvento.

Figuratevi quindi se non dovevamo aspettarci dall’operosa e dinamica Capitale Morale, dove vige l’imperativo: lavoro, guadagno, spendo pretendo, dove il mito del merito si traduce in negoziati per la cessione della città che ricompensano solerti sceicchi, cordate immobiliari e cementiere, una proposta per adattare lo smartworking in evidente difficoltà in una formula più domestica, ancora più “agile” e che ha anche il merito indiretto di ridurre la pressione sui mezzi di trasporto che da dieci mesi attendono una razionalizzazione ispirata principio di precauzione, invece applicato a scuole, musei, biblioteche, teatri,

 “Né in ufficio né a casa”, riferisce estasiato il Corriere della sera. E infatti “c’è una «terza via» per qualche migliaio di dipendenti comunali nel prossimo futuro”. Sarà  quella del “posto di lavoro di prossimità, l’ufficio di quartiere, del «nearworking» – è già pronta la definizione nel gergo imperiale – sintesi perfetta tra il salotto di casa e l’ufficio in centro”.

Ci ha pensato la Giunta del sindaco uscente e ricandidato, che deve a lui la suggestiva immagine di una città “dei 15 minuti”, di una metropoli cioè “in cui tutto ciò di cui si ha bisogno sia concentrato nel raggio di poche centinaia di metri”, grazie a questa  terza via che a detta dell’assessora Tajani “supera i limiti di un lavoro confinato nell’ambito domestico,  spostandolo nelle varie sedi decentrate del Comune o in uno dei settanta spazi convenzionati col Comune già attrezzati per il co-working”. Ma non solo, perché, chissà a che affitti, si sta lavorando insieme a Assolombarda “in modo che si possano mettere a disposizione spazi di grandi aziende in questo momento sottoutilizzati”.

Di questi tempi la statistica è definitivamente regredita a creativa trasposizione della teoria dei polli di Trilussa, ciononostante potrebbe essere illuminante conoscer il numero di dipendenti comunali che ancora risiedono dentro le mura di Milano, (d’altra parte Sala all’atto della firma dell’accordo con Fs per il  riutilizzo e la valorizzazione dei sette scali ferroviari “liberati dalla vecchia funzione”, rilasciò un’intervista con questa sprezzante premessa: “noi non facciamo case popolari”, a conferma del destino e dell’immagine di una città proiettata soltanto alle sua “visibilità” commerciale e alla sua appetibilità di marketing).

Sarebbe utile analizzare i dati dei censimenti che dimostrano la tendenza – con alti e bassi – in atto da più di dieci anni con una espulsione degli abitanti dal centro verso hinterland a fronte di uno sviluppo occupazionale soprattutto del terziario concentrato sul polo centrale urbano, e quelli dell’incremento del costo delle case della periferia in continuo aumento che spinge ancora più “fuori” gli strati popolare e genera crescenti movimenti di pendolari.

A volte c’è da chiedersi, mettendo da parte interessi opachi e l’adesione a un modello feroce, distante fino all’ostilità dalla realtà e dai bisogni della gente, se i “decisori” non vivano in una loro arcadia, con una percezione arcaica e letteraria popolata di Travet sottomessi, del popolino delle ringhiere di cucitrici, portinaie, del piccolo commercio di quartiere: lattai e prestinai,  dei trumbè e dei ferèe,  mentre il vigoroso ceto operaio si appaga di contribuire alla società risarcito con i corsi serali dell’Umanitaria. Esonerandosi così dalla loro stessa correità nella trasformazione del lavoro in precariato, della cancellazione di conquiste pagate care e pagate tutto e della demolizione di un edificio di garanzie e di diritti, quelli della dignità del salario, del “mestiere”, del tetto sopra la testa, del tram puntuale che sferragliando ti porta in ufficio, alla bottega, in fabbrica, a scuola.

Solo così si spiega la sfrontatezza venata di lirismo con la quale ancora una volta concorrono a  prenderci per i fondelli dopo mesi di celebrazione della magnifiche sorti e progressive dello smartworking che avrebbe dovuto garantire a un tempo la tutela di quel ceto medio impiegatizio, che probabilmente rappresenta il bacino elettorale della cricca progressista e assicurato i servizi dell’amministrazione sia pure in forma ridotta. E con un beneficio in più: quello di mettere le basi per la marginalizzazione di larghe fasce di lavoratori poco agili per età e formazione, preliminare a licenziamenti, conversioni in part time inabilitati alla sopravvivenza, tagli in busta paga legittimati dalla difficoltà di misurare le prestazioni.

E lo credo che come narra entusiasticamente l’assessora Tajani il bilancio di questi mesi di smart working  sia “positivo”, grazie allo schema dei 10-12 giorni di lavoro da casa,  a discrezione e su  “valutazione del dirigente” simpatica figura di kapò come piace al Jobs Act e alla Buona Scuola ,  che non avrebbe diminuito la “produttività” mentre promette di diminuire i salari, costringere a una disponibilità e reperibilità h 24, distorcere la gamma delle prestazioni e delle competenze.  

E lo credo che nello spirito del tempo come si applica il colonialismo all’interno dei paesi, regioni e ceti più forti che rivendicano il talento e le opportunità ingiustamente offerte per sfruttare geografie e popolazioni più deboli, allo stesso modo adottano le metodologie care all’imprenditorialità che ha contribuito a rendere la Lombardia la zona più esposta e ferita dell’emergenza sanitaria,  realizzando piccoli esodi quotidiani, complicati da un sistema territoriale di residenza, trasporti  e comunicazioni inefficiente e disorganico.

Non occorre certo essere complottisti per intuire che lo scopo sia quello solito, colpire chi lavora nella sua quotidianità, rendergli più incerta e amara l’esistenza, svalutare le competenze che ha maturato spostandolo come un numero o una pedina,  sradicarlo dalle abitudini e da quelle relazioni che potrebbero sortire l’inopportuno effetto di riconoscere in altri da sé l’umiliazione e lo sfruttamento. E ribellarsi.