quarto_potereAnna Lombroso per il Simplicissimus

Non vi dispiacerà se comincio con un ricordo personale. Mio papà, una delle prime tessere professionali dell’Italia liberata – anche da lui – direttore dell’Avanti! di allora, non quello di Lavitola,  continuò a  pagare puntualmente il balzello di iscrizione all’Ordine dei Giornalisti anche quando cambiò mestiere, per poter coprire l’incarico, a volte piuttosto rischioso e audace, di direttore responsabile di piccoli giornali locali, di testate di altrettanto audaci dilettanti, di riviste critiche e quindi moleste. Lo faceva malvolentieri perché guardava a  albi, federazioni e ordini come a strumenti unicamente al servizio di interessi corporativi e particolari, organismi incaricati di una disciplina volta a garantire l’informazione “ufficiale”, quindi ben poco attenti a libertà d’espressione e ai diritti dei cittadini, lettori e non.

In tempi non troppo lontani, quando a differenza di oggi, pareva esistesse la consapevolezza di vivere in un regime, peraltro molto condannato per il trasferimento di vizi privati nel contesto pubblico, anche sotto forma di ministre e consigliere regionali, meno per la manomissione della democrazia, opera completata da un figlioccio che coltiva altre trasgressioni non certo meno gravi, a quei tempi, dicevo, il vertice della corporazione dei giornalisti partecipò alle manifestazioni di dissenso per l’imposizione di bavagli, con uno slogan che dava ragione a mio padre: diritto a informare, capovolgendo il principio cardine della libertà di stampa, che dovrebbe consistere nel dovere di informare, mentre il diritto a essere informati dovrebbe essere prerogativa della collettività.

Siamo andati peggiorando: la crisi dei giornali tradizionali, l’incapacità della grande stampa di incamerare la potenza della rete con un rigido immobilismo difensivo, che pretende di esprimersi e comunicare con le stesse modalità del cartaceo, l’arroccamento di professionisti privilegiati dediti a una tenace conservazione dei privilegi castali e dei suoi delfinati familistici, lo sfruttamento delle migliaia di precari a pochi euro al pezzo non sono che degli effetti a cascata di un’informazione che non può e non vuole essere libera, perché gestita da editori impuri, beneficiata da fondi pubblici, corrotta dalla contiguità intimidatrice dei palazzi. E’ così che ci vengono somministrati solo gli annunci che vengono erogati o sussurrati artatamente dalle stanze del potere e dagli  arcana imperii, la subalternità di firme piccole  o grandi viene premiata con favori di scambio: presenze televisive, instant book costruiti su notizie offerte in esclusiva a giornalisti di famiglia, prestigiosi distacchi ben remunerati in istituzioni, enti, aziende pubbliche.

E dire che ci meriteremmo di essere informati, ci meriteremmo che qualcuno scoprisse il piacere e la gratificazione del giornalismo investigativo, esimendosi dal darci conto di ogni velina da agenzia Stefani, perfino la neo condizione di nubile di una parlamentare, ci saremmo meritati di avere conferma documentata dai giornali di quello che tutti, e i loro cronisti per primi, sapevano: Mose, Mafia Capitale, Buzzi, Carminati,  Expo, scontrini degli uni e degli altri, sacco delle città e del territorio, impuniti impresentabili e le loro carriere eccellenti e inviolabili. E poi i Casamonica, le bugie sulla crescita e il film grottesco sull’uscita dal tunnel, il Ponte di Messina e Messina senz’acqua, i disastri in Calabria rimossi e quelli in Toscana esibiti, il fallimento di intere città grazie a fondi e derivati, quello di regioni grazie alle spese pazze e quello probabile del Vaticano per gli stessi motivi.

Si ce lo meritiamo perché a pagare siamo noi. Noi che ormai non andiamo più in edicola, che abbiamo sostituito per incazzatissima diffidenza la preghiera laica del mattino con una passeggiata nei social network, nei blog, noi che aborriamo la minaccia del canone in bolletta al solo pensiero di finanziare Vespa e i diversamente Vespa: Fazio, Severgnini, Porro, visto che già li finanziamo tramite pubblicità insieme a Del Debbio, la d’Urso, la Gruber, insomma noi paghiamo. E si tratta di uno dei balzelli più infami, se siamo stati a nostra insaputa costretti a pagare i debiti contratti dall’Unità, a salvare dei “lavoratori” che hanno scelto coscientemente di fare i trombettieri di Renzi, a coprire le speculazioni di editori dell’apparato delle solite coop, dei soliti aspiranti banchieri, dei soliti imprenditori “amici”, grazie a una leggina di Prodi in aiuto di quel tesoro di tesoriere di Sposetti, che oggi serve a tenere al mondo una testata e una redazione sleale di tradizione e mandato.

Ma siccome siamo ecumenici e attenti ai fermenti locali, ci fa sapere il Fatto che abbiamo pagato e continuiamo a pagare anche per testate televisive, alcune della quali già morte, antenne lanciate da Pippo Baudo legate all’impero in odor di mafia di Ciancio Sanfilippo, emittenti che vantano come fiore all’occhiello interminabili litigi su moviole e arbitri vendute all’ombra di chiome color carota, o le emiliane Telesanterno eTelecentro, o la friulana Tv7, ma anche alcune volonterose e lodevoli iniziative, tutte destinatarie di fondi erogati dal Ministero dello Sviluppo, ai sensi della legge 448 del 1998, sulla base di una lista di merito stilata dal  Corecom.  Nel 2013 i contributi erogati dal ministero alle emittenti regionali ammontavano in totale a 57 milioni, poi nel 2014 sono stati ridotti a 42, la stessa cifra confermata per il bando 2015, in scadenza in questi giorni. Soldi erogati dal ministero con l’obiettivo di aiutare le tv minori, garantendo quindi i posti di lavoro. Peccato però che i lavoratori, giornalisti e cameramen quei quattrini non li vedano. Gran parte delle redazioni sono state smantellate anche quando si trattava di unità uniche al servizio di più testate, anche quando i redattori erano dipendenti pubblici “prestatori d’opera” distaccati, anche ora che i finanziamenti arrivano, seppur più esigui, mentre il parco giornalisti è stato azzerato.

Puntualmente gli organismi di categoria officiano il rituale  reiterato della solidarietà, ma – aveva proprio ragione mio padre – la chiusura al pubblico di queste voci, mentre le proprietà vivono grazie a noi, non fa notizia: sono altre le penne e i volti che devono essere aiutati, favoriti, premiati, perché sono quelli dell’ubbidienza.