Anna Lombroso per il Simplicissimus
È perfino banale dire che viviamo in un Paese intriso del culto della maternità. perfino della madonnina di Civitavecchia, che la penalizza crudelmente, che criminalizza chi non puù permettersi di far nascere un figlio, che costringe le donne a scegliere tra crescere la prole o affermarsi nel lavoro come se fossero conflittuali e inconciliabili, che le costringe a sostituirsi ai servizi, all’assistenza pubblica, trasformando in obbligo e costrizione quell’accudimento che dovrebbe essere il carattere solidale delle famiglie. Tanto che fare un figlio attiene ormai alla sfera dei lussi, della festosa e scriteriata irresponsabilità, della bellissima egemonia del presente su un futuro oscuro.
E diventa francamente fastidiosa quella paccottiglia di buoni sentimenti, quel messaggio di perbenismo politicamente corretto, quella perversa decodificazione aberrante del pensiero femminista, che dovrebbe persuaderci che è iniquo si, è “asociale”, ma in fondo corrisponde ai nostri codici di donna, al nostro “portato”, ai nostri caratteri di genere. Con le ricadute morali e sociali che questo comporta: l’edulcorata e melliflua celebrazione del ruolo della donna nella società, i suoi valori di madre, l’insostituibile ruolo esaltato dalla crisi, tutte liturgie da celebrare con pistolotti e baci perugina in date fatidiche, altrettanti giorni della memoria di condizioni o meglio aspirazioni del riconoscimento di diritti, inclinazioni, voleri e valori umani, irrinunciabili per tutti.
Evaporato – se non per qualche effetto postumo – lo sdegno per gli sporcaccioni, come se le colpe di una classe politica che ci ha trascinato precipitosamente e ineluttabilmente nel baratro dei crimini economici, quelli della corruzione e della difesa di interessi privati sul bene generale, quelli del clientelismo e della tutela di evasori e malfattori, quelli di una crisi nascosta sottovalutata a mai affrontata, fossero secondarie rispetto al corredo di questi misfatti costituito dalla circolazioni di favori sessuali.
E ora in piena guerra, quella di classe che pochi muovono contro i tanti, le donne, le madri restano destinatarie di fiori e cioccolatini in scatole sempre più piccole e residue beneficiarie di esigue risorse destinate alle marginalità più sofferenti, minoranze non per numero ma per autodeterminazione e godimento dei diritti. Mentre sopravvive uno dei ricatti legali più infami, la sottoscrizione delle dimissioni in bianco che l’infame marcia antiabortista di Roma dovrebbe più ragionevolmente indicare come mandante di “assassinio”.
Siamo in guerra e ogni arma serve a che l’ha dichiarata: hanno acceso conflitti all’interno di patti generazionali e familiari, genitori contro figli e figli contro genitori, uomini contro donne, giovani contro vecchi, nella terribile lotta tra uguali nelle disuguaglianze, un popolo di vittime che soffrono la perdita di diritti e certezze e vengono costretti ad addebitarla altri, padri e madri accusati di detenere inesistenti privilegi e sicurezze evaporate, figli additati come codardi e viziati. In una società e in una famiglia indebolita dove il futuro è delegato ai sacrifici, alle privazioni e ai sensi di colpa “domestici”.
Mentre mai come ora il domani è un carico sociale, collettivo, pubblico e civile, come sanno bene quelli che non sono madri o padri e che lo vivono come un impegno non diretto, non carnale, non viscerale, ma come una bellissima e esaltante responsabilità morale e politica. E come un movente in più, una passione in più per lottare contro le disuguaglianze perché vengano appagate differenti esigenze per premiare differenti inclinazioni, differenti capacità, differenti aspirazioni, perché strettissimo è il legame tra potenzialità, opportunità per esprimerle e diritti, oggi più che mai contesi e minacciati per le donne e per gli uomini. Più che mai avviliti per le donne, perché se per i più i diritti sono ormai concessioni, per loro sono benefici irraggiungibili, vietati. In sostituzioni dei quali si alimenta la narrazione sempre più illusoria della maternità come strada obbligata per una completezza della persona, che esclude vocazioni, ambizioni, desideri, passioni, relegate a optional per temperamenti esuberanti, quindi criticabili e asociali.
E d’altra parte il messaggio corrente è quello dell’espiazione e dell’austerità. E da Momma alle ebree castranti di Moni Ovadia, da quelle di Roth ai “core de mamma” nostrani che oggi popolano i social network contagiando gli insospettabili, chi si sa sacrificare più di loro.
Oggi un po’ di critica dovremmo proprio esercitarla contro le mamme, non contro quelle che blandite e colpevolizzate che si tengono in casa i figli precari, ma quelle che hanno aderito a certi modelli, che hanno favorito certi stereotipi, madri di figli maschi sessisti, madri di ragazzette troppo sveglie e determinate nella ricerca di protezioni azzardate. E perché no? madri di un ceto dirigente maleducato, cinico e arido che sta prosciugando tutte le nostre bellezze e tutto il nostro amore.
🙂 provocazioni a parte io penso che ogni giustiziato, più o meno virtuale, diventi una potenziale vittima-simbolica e che le vittime facciano troppo comodo a mantenere le cose come stanno.
per questo divreste cominciare col decapitare tutti i frati , tutti i preti , tutte le monache , tutti i vescovi e tutti i cardinali , e poi erigere un monumento in ogni piazza a quell’ignoto giudice abruzzese che ha punito un caso di dimission in banco con la gogna sui quotidiani [e l’obbligo del reintegro per tutte le dimissionate ]
A volte ci sono articoli, come questo, in cui la realtà entra prepotentemente con la sua concretezza, il suo sangue, il suo respiro.
Riconosco i segni di una passione civile forte, necessaria.
Accanto a questa tanti sono, a conferma, i possibili fatti, le esperienze, i vissuti
Incontro le mie ex alunne fatte donne; alcune mamme felici e nel pieno di un ruolo difficile ma amato, altre impossibilitate a diventarlo: o il lavoro o il figlio. E padroni (come chiamarli altrimenti?) che fanno firmare, e accade ancora eccome se accade, un foglio di dimissioni con la data in bianco: applicabile al primo segnale di maternità. Nei contratti “precari” le giovani donne si vedono sostituite da giovani maschi alla prima scadenza:ah queste donne che vogliono figliare! E comunque i soldi non ci sono.
Eppure accettare queste logiche ci rende ancora più schiavi e schiave: e si affermano, accanto alle vittime del sistema categorie omologate al medesimo: le rampanti pronte a tutto e che praticamente, spesso, sono dei nuovi maschi coi vecchi difetti; le over 50 che non si accettano per tali e non solidarizzano con le figlie; le allevatrici di maschi-idolo, sempre troppe; le giovani o quasi – giovani che si vendono e mostrano; e poi un grande popolo di “altre” verso le quali proprio quelle come me, abbastanza grandi da esser nonne, dovrebbero avere la massima attenzione. Non per riavvolgerle nel seno, ma per solidarizzare con fermezza al loro fianco. Il patto tra generazioni, quello attivo, quello sano, va ripreso, diffuso, difeso. E’ quello che abbiamo anche cantato:
“Il riscatto del lavoro
dei suoi figli opra sarà”
Non perdiamolo.
Mi scuso per la lunghezza del mio commento. L’argomento mi sta molto a cuore.
Grazie Anna Lombroso.