Non ho mai conosciuto Lamberto Sechi e del resto non sono mai stato un lettore di Panorama, anche quando non era l’agenda patinata di Silvio: gli ho sempre preferito L’Espresso, pure in quel formato lenzuolo un po’ espressionista che leggiucchiavo sulle panche dell’Alma mater. Quindi non ho aneddoti da raccontare, né miti da rinfocolare, ipocrisie da maneggiare e nemmeno peccati da tacere.

Però quella frase ” i fatti separati dalle opinioni” circolava come un mantra ai tempi della mia iniziazione giornalistica e mentre sembrava (come era probabilmente nelle intenzioni di Sechi) la base minima di deontologia professionale, ha costituito uno degli alibi di cui invece si è nutrito il giornalismo peggiore sommergendo la consapevolezza che la verità non è solo un risultato conoscitivo, ma soprattutto una tensione morale.

I fatti non sono i dati, gli elementi di base, i numeri, i legami logici, gli eventi dei quali sono composti, sono già elaborazioni  e non possono prescindere dalle idee, dalle convinzioni e dalle visioni del mondo. Mentre le opinioni sono spesso umori, intuizioni estemporanee, tesi prefabbricate per comodità intellettuale o per interesse, quando non sono semplicemente la voce del padrone.

Così che dalla divisione di fatti dotati di una presunta oggettività e delle opinioni sugli stessi, si è arrivati ad un effetto paradosso: che si è persa l’aspirazione a confrontare la realtà con le idee in un processo difficile e impegnativo, mentre si è data la stura a tutta la pigrizia di opinioni superficiali, ma nella maggior parte dei casi strumentali. E senza alcun criterio di valore perché il primo comandamento del decalogo della massificazione è che tutte le opinioni sono uguali, come se la sola libertà di esprimerle fosse un canone di validità.

Così mentre non si è costruita una deontologia imperniata sulla sincerità e la franchezza della  ricerca di verità, sul confronto mai risolto tra mondo e ragione, essere e dover essere, tutti sono sentiti liberi di sovrapporre ragionamenti occasionali, dichiarazioni di fedeltà, tesi artefatte, rivendicando questa paccottiglia come valore che non ha bisogno di misurarsi con le idee. Anzi addirittura felici come beoti oppure come servi-padroni, di essersi liberati dalle ideologie.

Alla fine di questo lungo processo di logoramento dell’intelligenza si ha che si possono avere opinioni senza fatti, anzi che i fatti sono per l’appunto le opinioni stesse, come nella favola o nella fiction che stiamo vivendo. Questo riguarda il giornalismo, certo, ma è qualcosa che riguarda tutta la società nella sua forzata infantilizzazione: al posto della tensione verso qualcosa, c’è spesso una resa a un qualcosa che nemmeno si sente la voglia di conoscere.

Si è baratta la dialettica della comprensione che è sempre difficile, con oggetti di consumo intellettuale, venduti a forza di spot. Fino a che i fatti non si vendicheranno.