Ci troviamo in una di quelle imbarazzanti situazioni in cui sappiamo che la commedia è finita, ma non si riesce a tirar giù il sipario. Si è inceppato dopo tanti anni in cui nessuno ha lubrificato i meccanismi di un pensiero politico e di un’idea di cittadinanza che andasse oltre quella di spettatori, di tifosi sfegatati della rappresentazione o di critici rassegnati alla propria incapacità di farla terminare.

Così gli attori nelle vesti di paron Silvio e smilzo Bossi, attorniati dai figuranti in costume storico di servi e sgualdrine, si aggirano per il palcoscenico non sapendo se chiedere l’ultimo applauso o evitare i pomodori. La stessa claque è ormai esausta e solo un grassone in prima fila fa finta di credere che quell’andare e venire privo di senso sia ancora parte del copione. E aspetta il quarto atto.

Spera ogni qual volta gli attori si riuniscono e confabulano increduli della loro stessa pochezza, che la farsa ricominci. Ma tutto ciò che doveva essere detto è stato detto e i tanti Godot annunciati fin dal prologo non si sono mostrati: era fantasie, fantasmi, inganni. Mezzucci, come direbbe Eduardo.

Però chi chiuderà il sipario? Gli attori no perché sanno che se abbandonano il palcoscenico non ci torneranno più, i figuranti nemmeno perché più stanno lì e più vengono pagati;  gli inservienti del teatro no perché si sono addormentati o rassegnati o indecisi. Tocca agli spettatori annoiati e disgustati, anche se le corde sono incastrate e le carrucole arrugginite.

Domenica e lunedì c’è una buona occasione di cominciare a chiudere il sipario e non si può perdere il momento. Anche perché se sarà il pubblico a farlo senza l’intervento di chi opera nelle quinte, ci sarà meno probabilità di vedere qualche compagnia ambigua esibirsi  sulle tavole del teatro.

Sapete George Bernard Shaw aveva torto marcio a dire che in teatro anche dormire è una forma di critica.