Anna Lombroso per il Simplicissimus

Si sa che la civiltà occidentale ha collocato  tra i suoi fondamenti la tutela della vita come valore supremo: lo dimostrano due anni impegnati nella protezione della nostra salute, in cima a una gerarchia “provvisoria” di diritti suggerita dallo stato di eccezione reso necessario dall’emergenza:  lavoro, istruzione, espressione livera di opinione e manifestazione, circolazione.

Qualcuno dei soliti maicontenti magari si interroga su quanto questo culto della vita sia compatibile con la sua imposizione violenza, con la forzata colonizzazione di culture, tradizioni, con guerre convertite grazie a acrobazie semantiche in campagne di rafforzamento istituzionale, esportazione di democrazia favorita da missili, bombe, repressioni e stragi, operazioni umanitarie concordate con tiranni sanguinari e despoti scelti e collocati in forma commissariale dagli stati maggiori dell’impero d’Occidente.

A maggior ragione si può fare qualche domanda da due mesi e poco più, quando repentinamente la stessa graduatoria di diritti  è stata scombinata, la vita è scesa in classifica sotto la libertà portata in auge dalla eroica resistenza di un popolo che lotta anche in nostro nome pretendendo l’immediata ammissione alla nostra stessa civiltà superiore, con i privilegi, la sicurezza armata,  l’obbedienza ai dogmi e ai canoni ideologici e comportamentali che assicurano di poter godere dello stesso stile di vita di Gekko a Manhattan come dei farmer  affamati, esacerbati, frustrati dell’Iowa.

È che la grande America possiede la caratteristica di promuovere le più tremende  e feroci disuguaglianze istillando nella mente di chi sta sotto, il sospetto di non essersi meritato il meglio che offrono quelli che stanno sopra, le opportunità dell’american life, di essere inadeguato a raccogliere le sfide del progresso e inidoneo a prestarsi per collaborare alla potenza egemonica del Grande Paese.

Chissà cosa si meritano le donne discriminate dei propositi di Biden che, sconfessando precedenti dichiarazioni con le quali sosteneva, malgrado il suo diniego personale, di voler mantenere l’attuale assetto giuridico in materia,  ha persuaso la Corte Suprema a pronunciarsi per annullare la storica sentenza del 1973 che ha affermato il diritto costituzionale all’aborto negli Stati Uniti, e il Planned Parenthood v. Casey, una successiva decisione in materia del 1992, riferendosi al Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization,  un caso pendente davanti alla  Corte sulla conformità  di una legge statale del Mississippi del 2018 che vieta le interruzioni di gravidanza dopo le prime 15 settimane.

I giudici sembrano orientati a ribaltare la  sentenza epocale  con la quale 49 anni fa venne legalizzata la pratica a livello federale: «La Costituzione non fa alcun riferimento all’aborto, e nessun diritto del genere è implicitamente tutelato da alcuna disposizione costituzionale… è tempo di dare ascolto alla Carta e restituire la questione  ai rappresentanti eletti del popolo». E se la sono presa per la fuga di notizie che ha infiammato gli animi creando due fronti che potrebbero finire per condizionare le decisioni dei magistrati:  a poche ore dalle prime indiscrezioni centinaia di esponenti di gruppi pro-life o pro-choice si sono riuniti davanti alla Corte Suprema di Washington, dando luogo a manifestazioni e sit in.

Se venisse confermato l’orientamento,   la decisione porterebbe a un vuoto  legislativo, in giurisprudenza e in diritto, delegando le decisioni ai singoli Stati  proibendolo a livello federale e passando la patata bollente ai singoli Stati, 26 dei quali (quelli a maggioranza repubblicana) hanno già approvato o stanno discutendo leggi che rendono illegale o limitano severamente l’aborto, mentre negli altri 24 (a maggioranza democratica) è cominciata invece una corsa nella direzione opposta per sancire esplicitamente la legalità dell’aborto.

In Alabama, Arizona, Arkansas, Georgia, Idaho, Iowa, Kentucky, Louisiana, Michigan, Mississippi, Missouri, North Dakota, Ohio, Oklahoma, South Carolina, South Dakota, Tennessee, Texas, Utah, West Virginia, Wisconsin, Wyoming, il diritto a non abortire in clandestinità mettere a rischio la propria salute con pratiche insicure e essere penalizzate come criminali, decadrebbe immediatamente, costringendo molte donne a recarsi in uno Stato più “accomodante”, percorrendo, ad esempio nel caso della Louisiana, almeno 2 mila chilometri tra andata e ritorno per permettersi un’interruzione della gravidanza a norma di legge.

Ormai la sceneggiatura della storia insegna che quando un paese vive una crisi identitaria, economica e sociale, a pagare per prime sono le donne che devono considerare i loro diritti e le loro prerogative a rischio, retrocessi a terreno di scontro ideologico e contrattuale dal quale sono escluse, pedine e oggetto di ricatto.

E quando succede – tocca dar ragione a Rosa Luxemburg- si ha la conferma che dietro a ogni dogma c’è un profitto, interessi opachi, ricatti, intimidazioni, commerci cui viene offerta una copertura morale. In questo caso gli antiabortisti rivendicano di voler condurre una battaglia di uguaglianza: secondo uno dei più accesi sostenitori della revisione dell’attuale norma si rende necessaria per motivi altamente morali, la sentenza Roe versus Wade traeva origine da vergognosi moventi razziali.  La maggioranza delle interruzioni di gravidanza avveniva e avviene tra la popolazione afroamericana e l’obiettivo era quello di introdurre un controllo delle nascite surrettizio, limitando la popolazione nera.

Superfluo ribadire che anche in questo caso la battaglia sfiora superficialmente gli appartenenti alle cerchie di chi fa opinione, legale o illegale l’aborto quando non è un amaro diritto, è un privilegio concesso a chi può permetterselo, alla stregua di tanti diritti diventati arbitrarie elargizioni a pagamento, come la genitorialità diventata sempre più difficile per via naturale da quando mettere al mondo figli è diventato una spettanza in regime di esclusiva per una casta avvantaggiata, cui in caso di ostacoli “sanitari” è consentito rivolgersi al variegato mercato  della procreazione artificiale e della maternità surrogata, business particolarmente sviluppato in Ucraina che considera il settore un atout aggiuntivo per la felice annessione nel contesto della civiltà superiore.

Quella civiltà nella quale una donna è sempre potenzialmente minacciata, nella quale i suoi diritti, perfino il più tormentato e travagliato è a rischio, nella quale le sue conquiste sul lavoro, nella carriera, nello studio, nella professione sono aleatorie, soggette ad essere secondarie o gregarie rispetto a quelle maschili. Abbiamo molto da temere anche qui, sotto quella triade di baciapile soggetti alle influenze confessionali del Vaticano e di Washington, Colle, Palazzo Chigi, Corte Costituzionale.