Anna Lombroso per il Simplicissimus

Uno degli effetti collaterali della modernità consiste nel peggioramento di fenomeni e  condizioni che si auspicava potessero essere limitati dal progresso, da standard superiori di cultura e informazione portatori di consapevolezza e coscienza dei limiti imposti dalla difficoltà di governare la complessità del mondo globalizzato.

È sempre la stessa storia, all’onnipotenza virtuale che ci fa parlare faccia a faccia con qualcuno agli antipodi e bombardare una popolazione civile con un semplice clic, come il mi piace su Facebook, fa riscontro l’impotenza concreta di trovare un posto per conferire e distruggere le tonnellate di rifiuti che produciamo ogni giorno, incrementate dalla valanghe di imballaggi, effetto collaterale, appunto, della rivoluzione della logistica e della civiltà delle piattaforme, ma, recentemente, anche del  contributo pesante di mascherine, guanti protettivi, flaconi di disinfettanti e tutta la panoplia di accorgimenti profilattici imposti dalla possessione pandemica.

Qualcuno davvero ha pensato che la società-macchina del futuro già cominciato con l’auspicio di monitorare lo status sanitario con app per smartphone e telecamere a circuito chiuso che tracciano tutte le interazioni sociali di una persona positiva, asintomatica, sana, avrebbe posto riparo anche all’assedio che subiamo in casa e fuori da tutto il superfluo, il non mangiato, il  rifiutato, lo scartato da nascondere per ragioni di decoro, grazie alla copertura globale  di dispositivi e sensori atti a  razionalizzare il funzionamento e l’organizzazione sociale, grazie all’intelligenza artificiale.

In realtà anche in questo caso la digitalizzazione potrebbe avere nel migliore dei casi una funzione di controllo sociale, per punire gli abusi e i comportamenti scorretti della popolazione, mentre sia pure in regime di transizione ecologica, di economia green, quella senza olio di palma che si redime con una pennellata verde sui crimini ambientali, nulla si prevede per la riduzione dei rifiuti all’origine e per prevenire la loro pressione inquinante e velenosa, la cui gestione è diventata uno dei brand più fertili per tutti i settori della malavita organizzata o di quella legalizzata.

E non poteva che essere così, quando la delega delle responsabilità individuale e collettiva è stata consegnata nelle mani dei cittadini, spoliticizzando l’azione, oscurando colpe e doveri dei decisori e del mondo di impresa, impegnati unicamente in soluzioni di tipo tecnocratico, nella circolazione di capitali intesi a accreditare la commercializzazione dei permessi di inquinare, a contribuire alla propaganda di produzione opportunamente tinteggiate con la vernice della sostenibilità. Non può essere che così la transizione ecologica dei commissari liquidatori, dei faccendieri neoliberisti  incaricati di mercificare tutto, persone, natura, risorse, territori, soggetti alle regole rigide dell’accumulazione, prodotti estrattivi da sfruttare e poi, infine, vuoti a perdere.

E difatti ci si ricorda del rimosso, dalla vista e dalle coscienze, del non conferito per via delle conflitto e dell’esuberanza di poteri e competenze, solo quando diventa tema elettorale esplorato con voluttà dalla stampa locale e nazionale in cerca di emozioni millenariste come se non bastassero quelle pandemiche, di botto diventato allarme sanitario anche quello.

La monnezza della Capitale, onta nazionale come le buche, malgrado si tratti di piaghe che rappresentano l’unico successo ugualitario dell’unità nazionale mai raggiunta, fotografati per contribuire alla cattiva reputazione di un Paese che ha bisogno con tutta evidenza di un Figliuolo in ogni settore della società capace di stanare e punire esemplarmente i disertori che non fanno la differenziata, è l’allegoria del Rifiuto, quello dei decisori e degli amministratori di assumersi l’onere della loro incapacità e impotenza, celata dietro l’impossibilità a agire imposta dai paradigmi di bilancio, o al rimpallo di poteri e competenze come avvien d’abitudine nell’opera dei pupi del governo nazionale, locale, regionale.

anche dell’altro rifiuto, quello della politica, della partecipazione al processo decisionale, da parte di cittadini disincantati o cialtroni, demotivati o sciatti che approfittano dei cassonetti pieni per abbandonare la lavatrice guasta e i pannoloni di nonno in bella vista, come atto dimostrativo del malessere popolare. E che guardano al contenzioso tra i pretendenti al Campidoglio rispondendo con lo slogan in voga da prima di Pasquino: er più pulito c’ha la rogna.

Il fatto è che i candidati alla poltrona di primo cittadino sempre più scomoda, speravano che la sospensione della democrazia adottata per motivi sanitari concedesse un grato rinvio del rito elettorale nelle città, anche se la Grande Elemosina europea non prevede laute concessioni agli enti locali se non in forma di contributo per opere infrastrutturali speculative.

Si tratta di nozze coi fichi secchi che non danno risposta alle pretese di autonomia, alle richieste di ulteriori mobilitazioni di tipo militare per la gestione dell’ordine pubblico urbano, alla necessità poco gradita di andare incontro ai sempre maggiori bisogni in materia di scuola, assistenza a segmenti di pubblico penalizzati dall’emergenza sociale e sanitaria, e perfino alla necessità di dotarsi della strumentazione per dare corso alla rivoluzione digitale che dovrebbe razionalizzare i rapporti tra municipi e cittadinanza. Ma che in ragione di ciò servono già ora come alibi per legittimare l’impotenza ad agire e soprattutto una nuova e più robusta ondata di privatizzazioni. Quelle  esplicite, ovviamente, ma anche quelle meno visibili, quelle contrassegnate dalla consegna definitiva della “politica” alla cultura neoliberista, che fanno esultare i fan dei sindaci, la Raggi nel caso dell’Atac,  che rivendicano il successo registrato da aziende pubbliche in attivo, come se quella fosse la funzione di chi eroga un servizio e la missione di chi dovrebbe garantire efficienza al posto delle crocette del più sul bilancio.

Girare per le strade di Roma, tutte, perché si sta realizzando l’uguaglianza della monnezza ai Parioli come al Tiburtino, con questo clima afoso da tristi tropici, è come realizzare una viaggio virtuale e ucronico in latitudini remote e estreme: montagne di sacchetti strappati e luridi da cui fuoriescono liquami,   accatastati al di fuori di cassonetti stracolmi e sotto i quali si assiste alle incursioni di sorci famelici e sui quali volteggiano  sfrontati e  avidi gabbiani e cornacchie con la colonna sonora di Hitchcock e una puzza che fa rimpiangere le mascherine all’aperto.

Dopo questi giorni di ponte e dopo lo sciopero degli addetti il 30, si prepara la location per un colossal rovinologico, di quelli che fanno gridare agli opinionisti forbiti che siano tornati al medioevo per non dire che  siamo nel pieno della tempesta perfetta del capitalismo, quella che promette un suicidio che non si verificherà mai perché tutti hanno paura dell’alternativa allo status quo, di un modo altro di vivere sconosciuto e perciò temuto anche se potrebbe essere migliore dell’oggi e adesso.