Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ci sono economisti che si inebriano delle trovate acchiappacitrulli suggerite e sostenute da colleghi in grazia delle autorità imperiali.

Ma non sono i soli, opinionisti e cronisti ci hanno informato e hanno commentato in estasi l’accordo raggiunto in Europa per una tassa comune sulle multinazionali, convinti – o per convincerci  – che si tratti di un evento epocale. Addirittura la esibiscono come  rivoluzione fiscale allo scopo – ho letto anche questa –  di finanziare lo Stato sociale fiaccato dal Covid  e  promuovere la riduzione delle disuguaglianze.

Qualcuno si è perfino lasciato andare a pensare  che si tratti di uno spettro che si aggira per l’Occidente, mettendo insieme l’obiettivo, al 2023, di creare un quadro armonizzato della tassazione delle società che hanno potuto “sfuggire al fisco” facendo  affari e reddito senza una presenza “fisica”,   con la promessa fatta dall’amministrazione Biden di un nuovo contratto sociale con gli americani, che consiste in un aumento delle aliquote societarie abbassate da Trump, per finanziare le infrastrutture e ammortizzatori sociali.

Insomma parrebbe proprio che i governi siano stati folgorati dal Covid, abbiano intrapreso la via della redenzione equa e solidale, cominciando da quelle multinazionali che hanno tratto profitti insperati e eccezionali dalla pandemia che ha magicamente convertito tre quarti del mondo ai consumi online. E anche di questo, lo dice Gentiloni, dobbiamo ringraziare la longanime weltanschauung di Biden e il suo impegno costruttivo grazie al quale anche in sede Ocse si individueranno misure per contrastare la gigantesca elusione fiscale dei signori delle piattaforme. Certo qualcosa in cambio si dovrà dare e difatti preliminarmente si stanno studiando doverosi accorgimenti in modo da dare aiuto ai poveri ricchi alle prese coi pesanti costi burocratici  che dovranno sostenere per adeguarsi a 27 diversi sistemi fiscali.

Il minimalismo che da filone narrativo e stilistico Usa di successo è diventato uno stilema delle politiche di rilancio della pandeconomia prevede che le azioni debbano convergere su due obiettivi:  una parziale ridistribuzione dei diritti di tassazione per riflettere la globalizzazione e la digitalizzazione dell’economia; e una tassazione minima effettiva dei profitti delle multinazionali. A questo fine è allo studio una strategia della Commissione, che vedrà la luce, senza fretta, nel 2023, in forma di regolamento  Befit (acronimo inglese per: Imprese in Europa – quadro per la tassazione del reddito), in modo che il prelievo sulle società venga equamente ripartito  tra gli Stati membri, sulla base dei relativi diritti di tassazione e a sostegno delle politiche nazionali “per l’occupazione, la crescita e gli investimenti nel mercato unico”.

La svolta memorabile prevede dunque che le imprese multinazionali o le imprese autonome con ricavi consolidati complessivi superiori a 750 milioni di euro in ciascuno degli ultimi due anni consecutivi – condizione che escluderebbe dalla normativa il 90% delle multinazionali – siano costrette a  rendere trasparenti i dati sull’imposta sul reddito in ciascuno Stato membro e in ciascun Paese extra-Ue inserito per almeno due anni consecutivi nelle liste nera e grigia dei paradisi fiscali dell’Unione, quell’elenco soggetto a continui rimaneggiamenti che finiscono per esimere  dagli  obblighi di segnalazione e che annoverano attualmente 21 Paesi, ad esclusione, tanto per fare qualche esempio illustre, le Isole Cayman, le Bermuda, le Isole Vergini britanniche.

Eh si ci vuole un po’ di cautela, la giusta dose di comprensione e solidarismo, siamo tutti sulla stessa barca, in fondo: quello che viene sbrigativamente definito il capitalismo delle piattaforme ha bisogno del suo tempo per adattarsi, dovrà mettere al lavoro i suoi fiscalisti  formati alle stesse scuole dei colletti bianchi delle cupole criminali per mettere in mare le scialuppe di salvataggio prima che, con tutto comodo, vengano adottate misure annunciate da anni per limitare il ricorso alle società di comodo, le cosiddette «scatole vuote»,  prima che si organizzino per rendere pubbliche le aliquote  fiscali effettivamente pagate almeno con la stessa visibilità con cui fanno valere le “perdite subite” negli anni 2020 e 2021, rispetto ai profitti non dichiarati delle annate precedenti.

E mica vorrete riservare a questi giganti buoni (i cui proventi serviranno un domani a migliorare le nostre vite, già allietate dall’arrivo in tempo reale dei chiodi, del giravite e dei quaderni di scuola, degli integratori e dei preservativi con confezione rispettosa della privacy,  recati nei nostri domicili coatti dalla meglio gioventù trasferita dai master alla Bocconi all’università della strada) lo stesso  trattamento e la deplorazione con la quale avete guardato a baristi, negozianti, osti, pretendenti di ristori e sostegni dopo aver eluso, evaso e inquattato scontri e ricevute.

E d’altra parte  i  migliori tributaristi e commercialisti arruolati dalle aziende con la missione precisa di trovare corridoi, pertugi e scappatoie così da ridurre al minimo le imposte da pagare sul reddito d’impresa, hanno dimostrato la loro superiorità disciplinare e tecnica rispetto alle autorità statali e europee vincendo contenziosi e incrementando la pressione lobbistica, persuadendo e corrompendo,   come dimostrano i loro casi di successo, tra i quali spicca il  ben noto ‘doppio sandwich irlandese-olandese’ che fino a qualche anno fa ha consentito  a un gigante del calibro di Google e a molte altre multinazionali di spostare i soldi tra Dublino e Amsterdam per poi spedire il tutto, praticamente senza tasse, nel paradiso fiscale delle Bermuda. E niente fa pensare che ci siano ostacoli a una nuova versione della procedura, visto che Web tax e misure ad hoc per le major della rete non sono in calendario.

Intanto già insorgono Paesi che hanno adescato le multinazionali con zuccherini fiscali, come Irlanda, Olanda, Lussemburgo o Cipro. Mentre facendo buon uso di quel tratto antropologico distintivo della nostra autobiografia nazionale, l’ipocrisia ruffiana, mostriamo di compiacerci del modesto risultato, certi di perseverare nell’abitudine di attrarre investitori, Arcelor Mittal tanto per dirne una, che trovano la Mecca qui offrendosi di caricarsi il peso di aziende decotte da mandare in malora per cancellare competitori e lo fanno con l’aiuto fervido del nostro Stato. O dando in pasto, a prezzi scontati, immobili, terreni, coste, intere porzioni di città, a emiri e sultanati rapaci con l’accompagnamento di disposizioni ad hoc, fiscali, urbanistiche, ambientali, a dimostrazione di quanto di sia gradita la loro invasione compatibile, ancorchè fieramente islamica, con la nostra tradizione e la nostra civiltà superiore.

Ancora una volta ancora prima di concretizzare l’inganno ci infliggono le beffe.

A cominciare dalla conferma che nel mettere le basi dell’audace strategia punitiva dei colossi, si è provveduto a salvare Amazon, risparmiata a differenza di Google, Facebook o Microsoft, perché conta su strutture fisiche, magazzini, mezzi di trasporto, dipendenti, che comportano costi elevati.

I suoi oltre 20 miliardi   di profitti realizzati e “denunciati” nel 2020 dipendono dal volume di vendite ingentissimo (382 miliardi), ma il rapporto tra utili e ricavi si ferma però al 6,3%, esonerando l’azienda dall’obbligo di pagare parte delle tasse nei paesi in cui effettua volumi di vendite consistenti, proprio come da noi,  dove  possiede 40 siti e oltre 10mila dipendenti e dove concede al fisco appena 11 milioni di euro di tasse. Senza dire che in quel reddito non è contemplata la voce più profittevole, quella che garantiscono i clienti mettendo a disposizione i loro dati personali, le loro preferenze di consumo, le loro inclinazioni e i loro desideri con relativo budget, un bottino non quantificabile  che si riproduce e produce profitto infinito.

E dovevamo un po’ di rispetto anche alla società del filantropo per antonomasia,   Microsoft:  profitti del 2020, 315 miliardi di dollari (260 miliardi di euro), e tasse pagate, nemmeno un soldo, i cui guadagni sono affluiti alla filiale irlandese, ma che ai soli fini fiscali, è domiciliata alle Bermuda,  dove le aliquote sui profitti societari sono pari a zero.

Altro che l’idraulico che non fa la fattura, il ristoratore che pecca sfilando con Casa Pound, la partita Iva in fila alla mensa della Caritas: quelli meritano la furia dei cavalieri dell’apocalisse creativa, mica questi poveri ricchi, resilienti e ricostruttori che si prodigano per noi.