Anna Lombroso per il Simplicissimus

Nessuno può contestare il fatto che la Lombardia sia la regione che fa da traino al Paese. E lo ha dimostrato ampiamente quando il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, continuamente reiterato, e si è piegato, in appoggio alle sollecitazioni di Confindustria,  a imporre misure eccezionali uniformi su tutto il territorio nazionale per non dare spazio alla concorrenza economica e commerciale di altre  geografie non altrettanto colpite dal virus.   Che la crisi sanitaria fosse  cominciata là e che là si sia aggravata molto più che altrove, non è certo un caso, per via delle particolari condizioni ambientali, demografiche e sociali di quella regione, per la sua sanità completamente aziendalizzata e concentrata nei grandi ospedali, per i suoi livelli di antropizzazione e industrializzazione.

Eh si, stiamo parlando del motore d’Italia dove insiste la sua Capitale Morale, sì da farne un laboratorio sperimentale per le politiche e le azioni di governo, da replicare poi in tutta la nazione troppo lunga, tanto che difficilmente le propaggini africane del Mezzogiorno potranno concorrere alla ricostruzione con altrettanta ferocia selettiva di quella del Great Reset di rito ambrosiano.

Resta intatto il suo valore civico esemplare di regione pilota, così speciale da esigere maggiore autonomia decisionale e di spesa, oggi alle prese con una epocale riforma del sistema sanitario regionale,  a cura della voce presidente e assessora Moratti. Infatti, quella che il suo artefice Maroni definì una sperimentazione, della quale i lombardi hanno dovuto subire i frutti avvelenati, grazie a una  la legge regionale, la numero 23 autorizzata dal governo per un periodo di cinque anni e che aggravava i danni della gestione Formigoni, eliminando ad esempio i distretti sanitari, è in scadenza.

E dunque il vertice del Pirellone ha in animo di dare vita a una sua forma ancor più  peggiorativa,  malgrado perfino l’Agenas, l’ Agenzia per i servizi sanitari regionali, ente centrale che sorveglia e dà supporto strategico alle regioni abbia chiesto espressamente di rafforzare la rete della medicina territoriale e di base, di definire le competenze in materia di prevenzione. Non ha invece sollecitato una revisione delle politiche in favore dei privati che ha fatto battere alla Lombardia il record assoluto del 40%  di spese a beneficio di strutture imprenditoriali e aziende che operano sul mercato, anche grazie allo sviluppo nelle aree più industrializzate e produttive del Welfare aziendale, diventato brand strategico dei sindacati.

Così più del 30 % (i dati sono stati riportati da fonti “ufficiali”) dei cittadini sono stati indirizzati per assistenza e cura: anziani, portatori di handicap, malati cornici e lungodegenti, sono stati indirizzati con una sollecita persuasione a rivolgersi a enti gestori che si erano aggiudicati l’appalto del settore, tra imprese “confessionali”, cooperative,  aziende che hanno infiltrato il territorio, andando a stanare (il termine, così in uso oggi, funziona a meraviglia) gli affetti da particolari patologie per convincerli della bontà della loro offerta. Il business, a detta di Medicina Democratica, non ha fruttato gli effetti sperati, poco più del 10% si è consegnato al racket: ma il Covid, la moria di anziani nelle strutture convertite in lazzaretti e quindi focolai, invece di imporre una revisione del modello lo ha reso più attuale e “indispensabile” a fronteggiare futuri e “previste” emergenze.

Così nel quadro benevolo e generoso dell’approccio One Health, una visione organica della “cura” di individui, animali e ambiente, dove ognuno sarebbe libero di scegliersi l’assistenza che più gli aggrada e conviene, è previsto un finanziamento per ricoveri e visite ambulatoriali presso strutture private di 7,5 miliardi, la cifra più alta mai stanziata spostando i fondi verso il sistema privato imprenditoriale e tagliando le risorse per ospedali e strutture territoriali pubbliche. Lo sforzo di potenziamento e valorizzazione della medicina di base consiste nell’ipotesi “visionaria”, ma non abbastanza, di creare un tessuto di “case” e “ospedali” di “comunità”, esaltando un terzo settore opaco, che dietro alla facciata confessionale e missionaria, dietro al volontariato caritatevole e peloso dei dogmi cari all’assessora, muove milioni e un esercito di sfruttatori rapaci e di sfruttati incompetenti o impotenti.

Se siamo abituati a sapere che noi gente comune non impariamo la lezione della storia, ancor più dovremmo aver appreso che chi sta in alto invece ne trae ammaestramento per irrobustire potere e ricchezza. Il Covid avrebbe dovuto rendere palese il fallimento del format della gestione della salute passato dalla “libertà di scelta” a “meglio scegliere il privato”, incrementando le disuguaglianze fino a dichiarare esplicitamente che la vita di alcuni possiede minor valore di quella di altri.

A dar retta alle parole di Kluge, il più alto responsabile dell’Oms per la Regione Europea, la metà di coloro che sono morti per Covid19 era residente in strutture di “assistenza” a lungo termine e case di cura, dato riconfermato dalle rilevazioni condotte in Italia che attesta che i contagi e i decessi sarebbero stati evitabili se si fosse intervenuti con responsabilità e competenza e applicando le misure necessarie a circoscrivere il rischio di contagio e a  adottare i protocolli di cura mirati per soggetti che presentavano patologie pregresse.

Si sa che le Rsa possono essere pubbliche, provate convenzionate con il sistema sanitario nazionale o interamente private, ma il fatto è che tutte rispondono ai criteri imposti da una ideologia che ritiene che la collocazione per vecchi e malati è il letto, che non meritano relazioni sociali ma l’isolamento utile a non dare disturbo, che la dignità è un bene in regime di esclusiva a chi può godere di una rendita, beni o privilegi comprati o ereditati.

Il Covid, che avrebbe dovuto per i profeti dell’andrà tutto bene, rappresentare l’evento sentinella del modello di assistenza vigente, ha invece confermato che invalidi, anziani, malati cronici, sono vite di scarto, assimilabili a rifiuti che è doveroso in nome dell’interesse generale, conferire in appositi contenitori, emarginare e togliere dalla vista per non distrarre con facili emotività e sentimentalismi residuali il capitale umano che deve collaborare allo sviluppo.

A questo scopo il lungimirante governo della Regione Lombardia pensa a una soluzione finale che combini l’interesse di trovare una collocazione definitiva per gli improduttivi che fruttano solo come merce da trattare e assegnare in apposite discariche, ai margini della rutilante vita metropolitana e delle coscienze, e che appaghi le legittime aspettative di un comparto che ormai promette di diventare trainante in una società che mette al centro la sopravvivenza del copro come una macchina che ha bisogno di particolari combustibili, vaccini, medicine per curare gli effetti di altri farmaci, per dimenticare e sopportare il presente e il futuro.