Anna Lombroso per il Simplicissimus

Mio padre era un bibliofilo compulsivo, oltre che un uomo avido di conoscenza, sapere e cultura.

Questa sua caratteristica lo spingeva dissennatamente a comprare anche le ultime novità, promosse e attese per anni con conseguente cocente delusione (compreso Horcynus Orca) e perfino i volumi con su la magnetica fascetta: vincitore del premio Nobel, tanto che in occasione di recenti traslochi ho reperito “La saga di Gösta Berling “, “Dolore”, “Versetti satanici” insieme al “Risveglio della Terra” o “ Città senza Nome”, e vi sfido a cercarvi gli autori.

Si era più creduloni, più innocenti e si correva a comprarli quando venivano esposti in vetrina in una orgogliosa ostensione, appena  Mondadori o Einaudi o Bompiani  ne proponevano a caldo la traduzione italiana che avevano dimenticato nel cassetto, dopo aver siglato controvoglia il contratto con omologhi stranieri – che dividevano con l’ignoto autore   cognomi impronunciabili fitti di z, x, y. – magari una sera con troppe birre a Francoforte.

Ho lavorato nella pagina culturale di un quotidiano e ricordo ancora la ricerca affannosa dello slavista, del cultore di letteratura pakistana, del  collaboratore che aveva allestito anni prima il coccodrillo della misteriosa autrice di liriche ispirate ai paesaggi del Deserto del Gobi, o del criptico esegeta della tradizione guatemalteca.

E come dimenticare il collage costruito con i meritori take della redazione dell’Ansa di Stoccolma per dare alle stampe nella sera di ottobre il ritratto dell’insignito. Si trattava di estrarre qualche formula dalla paccottiglia di rito che si era forgiato in un qualche melting pot di culture, vivendo romito in qualche territorio di “confine” e finalmente riconosciuto universalmente  “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta il superamento dei confini come una forma di vita”, o per essere interprete “di nuove partenze, di avventura poetica, di estasi dei sensi, esploratore di un’umanità al di là e al di sotto della civilizzazione regnante” (ne ho scelti due a caso e lascio a voi andarvi a cercare chi sono).

Non vorrei, per innumerevoli motivi, essere ancora in quella redazione, anche per non essere costretta a confezionare il profilo della vincitrice di quest’anno, Louise Gluck  con acconcia citazione in corsivo di un suo distico (Mie povere ispirate/creazioni, siete distrazioni, in ultimo,/puri inceppi; siete alla fine/ troppo poco simili a me /per piacermi) e la motivazione della scelta in virtù della «sua inconfondibile voce poetica che con austera bellezza rende universale l’esistenza individuale»,  capace di “evocare schegge memoriali”, tanto che ai produttori del coccodrillo ante mortem è venuto spontaneo paragonarla a Emily Dickinson, poetessa ottocentesca che ha ispirato il nome di una associazione statunitense “emancipazionista”, nata per sostenere le donne in politica nelle formazioni  democratiche e “progressiste” .

È probabile che un certo malumore me lo susciti il fatto che da anni non viene mai premiato un mio candidato a cominciare da Roth, facendomi tornare alla  mente quel manifesto con il ritratto di Marx e la scritta, appunto: il nostro candidato non ha trovato posto nelle liste elettorali.

È perfino banale ripetere che le scelte dell’Accademia si tratti del Nobel per la Pace o quello per la Letteratura, ma pure per le discipline scientifiche, hanno motivazioni poco pertinenti con la “materia”, ma invece con decisioni che hanno a che fare implacabilmente con la necessità di corrispondere ai dogmi dell’ideologia imperante, quella del politically correct, che testimonia la “bellezza” della globalizzazione e del cosmopolitismo affiggendoci con esponenti, graditi all’impero, di culture e tradizioni “altre”, del riscatto di minoranze arruolate, fidelizzate e quindi promosse.

Tanto che c’è da stupirsi che non sia stata scelta una donna purchè nera come in passato, o un autore in quota Lgbt, meglio se colored . Oppure  ricercando esponenti inoffensivi della autoreferenzialità lirica, della ricerca del sé che risparmia dalla presa di coscienza del noi.

Fatto sta che è stata premiata una donna. Che però non è Nadine Gordimer, non è Doris Lessing, nemmeno Grazia Deledda, premiate, non è Christa Wolf,  non è Simone de Beauvoir, Non è Marguerite Yourcenar, non è Joan Didion, non premiate.

È una scrittrice in versi ma non è Cvetaeva, nemmeno Plath né Sexton. E non è Wislawa Sziymborska, premiata per caso anni fa credendola inoffensiva, perché viviamo giorni nei quali l’affilato disincanto, ironico fino alla crudeltà e gentile fino all’amore, non ha più cittadinanza, per via del rischio che aiutino a pensare, a guardarsi dentro e guardare gli altri, o a scrivere un curriculum che assicuri il successo: Meglio il prezzo che il valore/e il titolo che il contenuto.

Non sia mai che si diano denaro e fama a una donna che interpreti e testimoni la collera, anziché i delicati sentimenti, il leggiadro vittimismo contemplativo, il ripiegato intimismo grazie a “schegge” liriche che pare debbano obbligatoriamente appartenere al codice genetico e al bagaglio emotivo, culturale e morale delle donne d’oggi richiamate a doveri di cura, accudimento e trasmissione dei valori,  quelli della “dinamite”.