wikileaks-vault-7-cia-800x500_cFrancamente sono rimasto sorpreso dal rilevo emotivo che hanno avuto le ultime rivelazioni di Wikileaks ( rapporto Vault 7) sul sistema di hackeragggio globale messo in piedi dalla Cia e dalle sue sorelle per spiare governi alleati o nemici, presidenti, politici, dittatori militari dovunque nel mondo, per rubare idee a industrie e gruppi di ricerca, per guidare e indirizzare terroristi e arancionisti. E’ vero che in questo caso la documentazione, tutta formata da documenti riservati dell’agenzia di spioni, ha il valore di prova oltre ogni ragionevole dubbio riguardo la natura della Cia e in fondo degli Usa stessi come burattinai del caos, ma la cosa era assolutamente presumibile se non proprio evidente anche prima e del resto c’era già stato lo scandalo Echelon, ovvero un analogo sistema di spionaggio planetario, tuttora in essere, messo in piedi prima della diffusione capillare della rete. Non è un caso che la grande informazione dei comprati e venduti racconti la notizia come se si trattasse di cose scontate e rassicuranti per la “nostra libertà” rieditando ad ore la guerra fredda con la piccola differenza che la Stasi è da questa parte.

Ciò che colpisce invece della vicenda sono sostanzialmente tre cose: la prima che l’agenzia è rimasta vittima degli stessi stili di vita (chiamiamoli così scendendo a questo livello di infantilismo) che dice di voler difendere arrivando a perdere il controllo di tutto l’hackeraggio esternalizzando e privatizzando gran parte dell’opera di spionaggio, dunque facilitando enormemente  la possibilità di diffusione delle informazioni. La seconda è che i migliaia di “bachi” e virus che creava e di cui si serviva, non presentano una particolare sofisticazione, erano anzi del tutto “normali”  (il che probabilmente deluderà chi pensa con spirito di servizio o religioso all’invincibilità americana) e sono stati presumibilmente provati e diffusi in rete per sperimentarne le prestazioni, costringendoci alla sindrome da virus. La terza è che la Cia operava con tutta plausibilità con il consenso, la complicità, la consapevolezza o comunque la neutralità tecnologica dei produttori di software e di strumenti adatti allo spionaggio: telefonini, televisori, tablet, computer, navigatori connessi, sistemi di immagine e quant’altro fosse in modo utilizzabile per lo spionaggio. Dai documenti pubblicati emerge che Samsung, azienda della colonia sud coreana, si sia particolarmente distinta in tale corrività, cosa che viene generalmente nascosta dall’informazione ufficiale per ovvi motivi di raccolta pubblicitaria e forse per ragioni meno miserabili, anche se storicamente più infami.

Insomma viene fuori tutto il mondo americano: la sindrome del dominio, l’impossibilità di sfuggire ai topoi neoliberisti fino al punto di privatizzare anche nello spionaggio e in perfetta  contraddizione il servirsi delle multinazionali private (che forse venivano ricompensate con informazioni tecnologiche) per portare a termine il compito di controllo e indirizzo. Cosa questa che spiega come l’internazionalismo liberista si appoggi in qualche modo al nazionalismo formando due livelli inscindibili e non separabili a meno di una rivoluzione politica: senza l’uno non ci sarebbe l’altro e viceversa.

Ma la cosa che davvero impressiona di più è che tutto questo arriva dopo mesi di lamentazioni e di ossessivo battage globale per il presunto e fantasioso hackeraggio russo dei computer della Clinton: oggi ci sono tutti i motivi per supporre che sia stato qualcuno all’interno o fra i contractor della Cia a far emergere il marcio, ma anche senza questa ipotesi è del tutto grottesco l’atteggiamento di una informazione maistream che fin da settembre si è stracciata le vesti per i russi cattivi e adesso prende con olimpica serenità e quasi nonchalance la prova provata dello spionaggio planetario della Cia. Che del resto spende spesso inutilmente: è pressoché inutile spiare i servi.