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Anna Lombroso per il Simplicissimus

Non alzate i toni, basta con le urla, una campagna  lettorale di insulti, il duello tra l’intemperante maleducato e il guascone che dalle promesse è passato alle minacce e ai ricatti: se casca il governo cade l’Italia, ha fatto riscoprire il bon ton, in sostituzione della democrazia. Ci siamo abituati alla regressione, il jobs act al posto dello statuto dei lavoratori, il Fare al posto delle riforme strutturali, una cara memoria di quando si pensava che il capitalismo si potesse addomesticare, i figli in tutte le professioni sono peggio dei padri, perfino la vecchia Tangentopoli era meno marrana.

Si sembra ormai importante assumere toni maturi e accenti composti, preferibili soprattutto quando si va contro il popolo e lo si accusa di affidarsi ai populisti.

Sabato ne sono sfilati un bel po’ a Roma, sfidando il ridicolo di battersi per battaglie considerate dei lussi marginali e controcorrente quando l’unica scelta fatale è l’alienazione dei beni comuni e anche l’allarme del Viminale che temeva “saccheggi” come se ci fosse ancora qualcosa da saccheggiare dove tutto è bottino di guerra, trofeo dei predoni.

Invece, a differenza dei candidati, la manifestazione di Roma è stata pacata e beneducata, come sa essere il popolo quando si mette l’abito buono per mostrare che è è grande, non ha bisogno di lezioni e di sapere da altri qual è il suo bene e il suo interesse. E appunto per questo non ha avuto successo di pubblico televisivo, nemmeno un passaggio nei telegiornali, per non dire dei talkshow che prediligono zuffe finte di quelle con gli spadoni di legno e gli amici che trattengono i contendenti: tenetemi che l’ancido.

Saranno alla fin fine loro, apostrofati da populisti, nell’accezione più irridente e beffarda? Illusi, visionari, nel migliore dei casi, eversivi e disfattisti nel peggiore. Gente comunque da emarginare, confinare, perché non sia contagiosa, non faccia venire strane idee in mente, critiche, alternative, utopie.

Eh si ormai i populisti sono proprio fuori, speriamo in mezzo al popolo se significa essere un sacrosanto movimento di protesta, se significa dolersi degli attentati alla sovranità, se significa anteporre la solidarietà alla competitività, se significa esigere la rappresentanza, sempre più circoscritta, minacciata, messa fuori legge per legge.

Personalmente non ne sono mai stata una fan, tanto meno quando il populismo è stato rivendicato da un leader più o meno carismatico che lo ha dispiegato come rappresentazione di una massa che in lui si riconosce e gli attribuisce testimonianza, in attesa del momento fatale nel quale si passa da movimento (politico o di opinione) a potere di governo.

E non ho mai pensato che possa essere la forma compiuta della democrazia, che dovrebbe appunto riprodurre il popolo nella sua totalità,  unita dagli stessi valori, dagli stessi bisogni, dalle stesse aspettative, tanto che la sua eterogeneità è superata dall’interesse comune, dall’istanza e dalla volontà di essere uguali.

C’è da averne paura, si è sempre detto, quando nasce dove non c’è democrazia, dove c’è bisogno del numero e della forza, della rivolta e della minaccia per fare valere pensieri sia pure comuni o inquietantemente diffusi, come sta accadendo dell’Est europeo. Mentre sarebbe accettabile quando scaturisce all’interno delle democrazie costituzionali, in un cornice di prerogative civili, quando si presenta come una sponda critica che si augura di interpretare il “popolo”, di amalgamare aspirazioni, necessità dando loro un linguaggio unitario.

Ma oggi e qui la guerra condotta contro la democrazia ha già stabilito i vincitori, quella cornice di civiltà e libertà è vuota di idee e ideali, si sono misure illiberali e autoritarie per cancellare elezioni libere, partecipazione, riconoscimento sostituiti da appartenenza e fidelizzazione.

Qualcuno ha detto che al populismo si adatta la frase con la quale Durkheim definì il socialismo, il “grido di dolore” della società contro sfruttamento e sopraffazione e contro chi attenta alla democrazia. Non so se è così, so solo che anche se non è educato, è il momento di gridare.