Che Marchionne abbia la faccia come il culo non può sorprendere nessuno, ma restando in tono anatomo – linguistico si resta sbalorditi di come vi siano ancora coglioni che ci cascano e applaudono. Oddio si tratta di studenti della Luiss, quindi clienti di Confindustria rigorosamente selezionati per reddito più che allievi di una qualche disciplina e quindi battere le mani era un dovere di clan e di classe anche ammesso che fossero in grado di decodificare il discorso, privo di senso sul piano delle idee, però loquace su quella della praticaccia propagandistica.
Ma cosa ha detto l’uomo col maglioncino? Tenetevi: ha sostenuto che “Non possiamo demandare al funzionamento dei mercati la creazione di una società equa perché non hanno coscienza, non hanno morale, non sanno distinguere tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Gli eventi e la storia (parla della crisi subprime ndr) hanno dimostrato che ci reggevamo su un sistema di governance del tutto inadeguato. Soprattutto, hanno evidenziato la necessità di ripensare il ruolo del capitalismo stesso e di stabilire qual è il corretto contesto dei mercati. Sono una struttura che disciplina le economie, non la società. Se la lasciamo agire come meccanismo operativo della società, tratteranno anche la vita umana come una merce. E questo non può essere accettabile”.
Infatti un Marchionne, pelo sullo stomaco fatto uomo, in un mondo più equo o semplicemente più razionale non sarebbe lì dov’è e lo sa benissimo, le sue nuove verità sono da Caro diario. Non so se gli studenti – plaudenti, con tutto il loro sapere economico si siano resi conto che parole del genere costituiscono la sconfessione di tutto il liberismo e della teoria neoclassica basata sul mercato come regolatore assoluto e dunque sono anche una sconfessione di ciò che essi rappresentano e magari si affaticano a leggere a tempo perso. Probabilmente non sono nemmeno stati sfiorati da questa idea e come spesso accade nella contemporaneità l’ottusità è vincente perché Marchionne scherzava, semplicemente calcava la mano come un imbonitore: la montagna ha partito un topolino, anzi una topolino e alla fine di tutto questo non è rimasto nulla se non la cartaccia come nelle fiere di Paese. Dopo aver fatto pensare a una grande eresia, ai novantacinque punti infilati sotto i tergicristalli delle sue auto, l’uomo col maglioncino ha cambiato repentinamente idea ed è tornato in sé cioè alla sua naturale alienazione umana: “la forza del libero mercato in un’economia globale è fuori discussione, nessuno di noi può frenare o alterare il funzionamento dei mercati. Tuttavia il perseguimento del mero profitto, scevro da responsabilità morale, non ci priva solo della nostra umanità, ma mette a repentaglio anche la nostra prosperità a lungo termine”. Occorre quindi “creare le condizioni per un cambiamento virtuoso” e “per promuovere la globalizzazione che sia davvero al servizio dell’umanità”.
Insomma si è capito che non si può andare contro i voleri e valori del mercato che rimane la divinità assoluta e dunque nulla contro la mercificazione dell’uomo. In cosa può consistere la responsabilità morale oltre il profitto? Sapendo quanto c’è di amerikano in lui si ravvisano subito le stigmate della vacuità: si tratta solo della charity, del capitalismo compassionevole alla Bush, mentre il cambiamento virtuoso e la globalizzazione al servizio dell’umanità non sono che abusate formule rituali il cui senso è semmai di essere spia di una paura sempre più evidente in una crisi irreversibile che si sente arrivare, il peso degli errori, degli egoismi, degli imperialismi, delle disuguaglianze mai viste che comincia a gravare sulle spalle di chi è colpevole di questo mondo e non sa come uscirne. Però poco importa, quello che Marchionne si proponeva non era certo di prendere per il naso un ensemble di figli di papà felici di trovare un alibi qualsiasi al loro essere, era di far sapere a un’opinione pubblica che ormai si beve qualunque cosa quanto è buono lui e di indurre quindi il gregge a votare Sì al referendum costituzionale come appunto ha insistentemente suggerito.
E’ possibile che dietro questo ci sia anche una preoccupazione per un mercato che in termini globali non sta affatto premiando il suo progetto: le espulsioni di operai in Serbia, il poco successo dei modelli turchi, le preoccupazioni per il sudamerica, la non brillante situazione negli Usa stessi, tutti problemi che derivano da una costante interpolazione di pezzi, scocche e motori, fabbriche senza una vera e accurata progettazione, senza un’idea proprio nel momento in cui molto sta cambiando nella tecnologia di base. Certo a leggere i giornali italiani specializzati e non, on line e non, c’è un continuo record di vendite, di miglior gennaio, miglior agosto, miglior giugno e via dicendo dimostrando che l’impero mediatico e politico degli Agnelli, disposto a mettere in pagina le cifre di Marchionne senza fiatare, tiene ancora, tanto che ci si chiede come mai possano esistere ancora altre marche. Ma è solo fumo come si evince da questo passo esemplare di un comunicato stampa di qualche mese fa e si riferisce alle vendite di gennaio: “La regina nelle vendite Usa rimane la 500 classica che ha venduto ben 2.386 unità. Molto bene anche Alfa Romeo 4C da poco uscita che ha piazzato ben 97 esemplari”. Ma la realtà è che solo Jeep va bene, Dodge cala nei primi sei mesi del 10%, Fiat del 14%, Chrysler stessa ha fatto un tonfo del 4%. Mi sa che si annunciano tempi di pensionamento. Tra gli applausi naturalmente che sono anch’essi solo e soprattutto merce.
forse marchionne, visti i brutti risultati delle sue vendite, comincia a pensare ad un aiuto pubblico alla domanda, la qual cosa va dalla rottamayione, ad altr forme di spesa pubblica a sostegno della domanda. Un influente esponente della prima amministrayione reagan, scrisse un libro in cui spiegava come i propositi liberisti si infransero sulle richieste di aiuto pubblico da parte degli imprenditori spostando la politica economica effettiva verso il deficit spending
Gli imprenditori o manager sono liberisti per gli altri ma per i propri interessi vogliono il deficit spending, e cosa risaputa. Come ottenerlo, magari criticando i mercati e la finanya, pretesi come diversi dalla sfera produttiva.
Da questo punto di vista le richieste di spesa pubblica di marchionne )chiede questo ovunque va ad investire), possono integrarsi con il keinesismo, anche con quello in stile minutolo.
Qualche imprenditore un po piu presentabile di marchionne ed un futuro romano prodi potranno finalmente reaiyyare questa prospettiva che e quella della ‘alleanya tra produttori’ Cosa puo sperare di meglio qualunque keinesiano, proprio non vedo.
Peccato che a causa di una faccenda certificata dalle stesse statistiche borghesi, e di cui parlava adamo smith e marx la ha solo collegata allo sfruttamento, ovvero a causa della caduta tendenyiale del saggio di profitto, una prospettiva del genere non puo funyionare ed in costi finali sarebbero comunque scaricati sui lavoratori, e qui che ci portano certi keinesiani.
Cio e inevitabile, il liberismo, neliberismo angloamericano oppure ordoliberismo tedesco, nasce proprio per scaricare sui lavoratori il deficit spending dovuto alle politiche keinesiane del dopoguerra Tale deficit non e rientrato grayie alla tassayione sulla espansione keinesiana della economia, a differenya di quanto preevedeva Keines ed a dispetto di una tassayione che a fine anni 70 era ovunque altissima.
A spiegayione di quanto sostengo, oso allegare una parte di un mio commento pregresso …
La crisi inevitabile del capitalismo è da ricercare nella sua stessa dinamica : le spese per la ricerca e la tecnologia presupposte alla produzione sono oggi enormi e fanno tutt’uno con il costo dei macchinari, prima che tali spese vengano ammortizzate già la concorrenza impone di aggiornare il know-how ed i macchinari, per cui le società capitalistiche devono spendere di nuovo per la tecnica prima di essere rientrate dalle spese tecniche precedenti, in una situazione del genere i profitti non sono più possibili.
La cosa non deve stupire, il singolo capitalista guarda alla sua prospettiva individuale, nessuno di essi può avere uno sguardo circa l’intero sistema, ciascuno si protende in avanti a spendere per le tecnologie sperando di farcela ma proprio per questo nessuno riesce ad ammortizzarle, per questo i profitti languono.
Come conseguenza del calo dei profitti, i capitalisti sono costretti ad investire nella sfera finanziaria, la quale, prima della straosferica crescita delle spese tecnice volte alla produzione, dava profitti inferiori a quelli dell’industria. Ormai tutte le grandi imprese produttive hanno la loro divisione finanziaria, sicchè esse partecipano le banche e sono a loro volta partecipate da queste.
Tramite le banche, ed In cambio di denaro vero, vengono stampate obbligazioni, azioni, che si dice saranno remunerate con i profitti garantiti dalla produzione negli anni a venire, ma tali profitti non arrivano mai perchè come si è visto, le spese tecniche volte alla produzione, a causa della concorrenza vengono effettuate nuovamente prima di avere ammortizzato quelle pregresse. Ecco perchè, all’origine, nessun prodotto finanziario è ingannevole, ciascuno lo diventa poi a causa delle dinamiche profonde della sfera produttiva capitalistica che non riesce a remunerare tali prodotti finanziari, a causa del ruolo giocato delle spese tecno-scientifiche
Quando esplode una crisi come quella dei subprime ,gli stati salvano la finanza e con ciò consentono alle banche di sopravvivere, ed insieme ad esse si salvano anche i blianci delle imprese produttive che solo per questo sembrano esibire profitti decenti. La conclusione è che è sbagliato distinguere, come fa minutolo, la sfera produttiva che andrebbe sostenuta con le politiche keynesiane, e la sfera finanziaria che oggi sarebbe dominante a causa dei un golpe delle elites mondialiste, in effetti il capitalismo è un tutt’uno inestricabile.
Le politiche keynesiane sono state attuate dal dopoguerra alla fine degli anni 70, ma esse non hanno impedito la crescita stratosferica delle spese tecno-scientifiche volte alla produzione, vera causa della crisi del capitalismo. Anzi, tali politiche hanno determinato un deficit spending che poi non poteva venire ripianato negli anni a venire con gli introiti fiscali relativi alla produzione ( cosa che per keynes era di fondamentale importanza). Anche per questo mancato recupero del deficit spending con la tassazione della produzione futura, la spiegazione è nella impossibilità nellala sfera produttiva, a recuperare le spese tecniche volte alla produzione stante la necessità di investire troppo presto in nuova tecnologia,(pena l’essere fuori mercato)
Da questo punto di vista, la sfera finanziaria, e quella della spesa keynesiana, sono sorelle gemelle, entrambe un protendersi in avanti con la spesa senza che in futuro la produzione generi un valore che consenta di rientrare dagli investimenti, il capitalismo a causa del peso della tecnica è giunto al suo limite storico e come ci indica la cronaca puo generare solo fame distruzione e guerra
..tornare a zappare la terra, magari inserendosi in quei circuiti lontani da dove questa ancora tremi, sarebbe cosa buona e giusta invece di inseguire profitti fittizzi nella speranza di una concorrenza edulcorata o monopolizzata, piangendo costi della ricerca … laddove questa domina incontrastata e privata come fonte di pre-distruzione di interi settori lavorativi, più che propensione alla
fruizione di diritti basilari.
La caduta tendenziale del saggio di profitto fa riferimento al fatto che la tecnologia costa sempre più, la stessa diminuisce il tempo di lavoro che ci vuole per produrre le merci.
Ciò solo in un primo momento aiuta il capitale, in quanto le merci costano meno, e quindi gli operai possono essere pagati anch’essi di meno. Con ciò, agli operai viene pagata una quota senpre minore delle ore di lavoro che svolgono. Per cui, il capitale prende sempre più ore di lavoro a gratis, e prende a gratis le merci prodotte in queste stesse ore di lavoro. Quando le vende, il capitale ci fa il profitto, che quindi equivale allo sfruttamento.
Di fatto, in conseguenza della tecnica agli operai viene pagata una quota sempre minore delle ore di lavoro che svolgono – da cui il profitto. Gli operai sopravvivono perchè le merci costano meno (la tecnica elimina manodopera) ma cosi lentamente si riducono gli operai complessivi. Ecco che il maggiore sfruttamento dei singoli non compensa più il mancato sfruttamento della maggiore base operaia che esisteva prima, i profitti iniziano a diminuire rispetto al capitale investito.
Per tutta una fase i profitti cadono per la riduzione della base sfruttata, in una seconda fase i capitalisti si contendono i pochi operai rimasti per poterli sfruttare, e lo fanno con investimenti tecnici che dovrebbero portare ad acquisire le quote di mercato rimaste e i relativi operai da sfruttare.
Per questa ragione gli investimenti tecnici crescono esponenzialmente, e se ne devono fare di nuovi prima di avere recuperato i precedenti, è questa la situazione odierna che è l’agonia finale del capitalismo. Esso da giovane fu liberista, poi protezionista nella prima maturità, all’autunno della sua vita fu keinesiano , nell’ora dell’addìo si e fatto liberista.
AGDGADU, cosa di più