1cab98469589bb5cd553b50c7c45fddec407e94d263ee79db73c286dQuesto 25 aprile, settantesimo anniversario della Liberazione, cade alla vigilia della restaurazione di una nuova forma di fascismo che troverà la sua consacrazione nell’Italicum in via di votazione, ancora peggiore come legge elettorale di quella Acerbo che permise a Mussolini di instaurare la dittatura. Dovrebbe dunque essere un 25 aprile speciale, una festa di lotta o quantomeno di rabbia per il tentativo di svuotarla di senso e riportarla nell’ovile reazionario; invece assume il carattere di una commemorazione, di un epitaffio sulle speranze prima irrealizzate, poi discusse e infine tradite nel modo più indecente da chi avrebbe dovuto accudirle.

D’altro canto il 25 aprile è stato almeno da mezzo secolo, una festa investita da ubiquità e ipocrisie: un giorno nel quale una parte celebra la liberazione politica da un regime, la possibilità di un cammino diverso per la società, un’altra invece lo scampato pericolo per una classe dirigente -monarchia e chiesa comprese – che dopo essersi compromessa fino al midollo con la dittatura al punto da essere tutt’uno con quella, temeva di essere spazzata via dalla sua completa e catastrofica sconfitta. Questa parte ha da sempre festeggiato non tanto la liberazione dell’Italia dall’alleato del giorno prima, quanto l’essere riuscita nell’operazione di cambiare tutore e garante all’ultimo minuto: nel luglio del ’43 sia i gerarchi fascisti che la dinastia sabauda non avevano altra prospettiva che sacrificare Mussolini per salvare sotto qualche forma il regime e/o il trono, ma soprattutto gli assetti di potere che si erano venuti determinando. Il vecchio re giocò d’anticipo, certo di essere riuscito a salvare la dinastia mettendosi sotto la protezione dell’incipiente vincitore, sia pure in modo grottesco e costituendosi come unica zattera di salvataggio per la classe dirigente del Paese che nel ventennio si era ingrassata a dismisura. Un piano che sarebbe andato tranquillamente in porto senza la guerra partigiana.

Questa parte, pur formalmente democratica e apparentemente aliena da nostalgie in camicia nera, ha sempre festeggiato solo ritualmente la Resistenza, ha sempre considerato con sguardo circospetto la Costituzione che appunto è frutto della lotta di liberazione dal nazifascismo per non parlare della Repubblica fondata sul lavoro: sono tutte cose che si sono messe di traverso verso l’uscita “morbida”, conformista e continuista dalla tragedia della guerra e della dittatura, hanno in qualche modo costretto alla democrazia. L’unica cosa che questa parte ha sempre festeggiato, oltre al fatto di averla scampata, è stato il nuovo padrone come surrogato esterno dell’autoritarismo interno e garanzia di mantenimento del potere. E ora questa parte, non contenta di essere uscita allo scoperto con il berlusconismo, di aver messo sotto accusa la guerra partigiana, di aver affermato l’uguaglianza di vittime e carnefici con i colpi al cerchio e alla botte inferti dai vari Violante, Napolitano e compagnia cantante compreso l’epigono redivivo Mattarella, sente di poter imporre definitivamente questa nuova visione del 25 aprile nella quale la Liberazione e il suo significato vengono sostituiti da una indefinita e rituale  “libertà” buona soltanto a sostenere la deriva oligarchica che ormai è arrivata alla cruna dell’ago.

Ciò che si vuole negare e suturare è l’intollerabile, scandalosa e per certi versi inattesa frattura con l’ordine precedente che la Resistenza ha prodotto sul piano delle istituzioni, creando un taglio netto con il Paese clericofascista che aveva abolito sindacati, Parlamento, elezioni e alla fine si era abbandonato alle leggi razziali. Ma ora è tempo di normalizzare, di gattopardizzare e di dimenticare. Ora è il tempo di Renzi che rappresenta al meglio il peggio del Paese. E questo richiede un’altra guerra di Liberazione.