“Colpisce il silenzio dei sindacati”. Ecco cosa hanno da dire i giornaloni del padronato italiano residuale sulla tragedia di Prato. Quegli stessi sindacati che sono stati esorcizzati per vent’anni anche quando si sono arresi ad una gestione “compassionevole” delle condizioni materiali e sociali del lavoro. Ad una collusione di fatto con le “necessità” imposte dal liberismo. Sembra quasi che sia una loro colpa diretta l’incendio e la morte di sette neo schiavi, tenuti dentro il cartongesso e le inferriate come in un lager. Ma ci vuole pure l’evocazione di un nemico anche fasullo quando si spadroneggia senza quei contrappesi politici che sono essenziali alla democrazia.
Sarebbe invece molto interessante sentire cosa hanno da dire i grandi azionisti dei medesimi giornaloni la cui mentalità e le cui prassi hanno portato al disastro del Paese e anche alla creazione delle anomalie come Prato. Che ci vengano a parlare della loro nota propensione all’investimento produttivo e all’innovazione, ci vengano a raccontare della loro strenua battaglia per imporre controlli fiscali e ambientali, per eliminare il lavoro sommerso, della battaglia per i diritti del lavoro o magari della loro noncuranza vero ilprofitto. Perché se siamo tutti sulla stessa barca, allora vuol dire che siamo su una nave negriera. E viene buono a questo proposito ricordare come la presidente di Confindustria Marcegaglia un anno e mezzo fa, tra gli applausi dei suoi soci, parlava dei lavoratori come di ladri e fannulloni
Ma è stato così semplice approfittare della manodopera a basso costo, prima con le delocalizzazioni nel celeste impero e dintorni, poi importando direttamente i lavoratori a un euro l’ora per 15 ore al giorno, visto che una lunga pratica sottobanco ha reso marginale il pericolo dei controlli, la fase autarchica e casalinga di quella deregulation che gli ultimi governicchi vogliono rendere norma. Perché c’è gente in questo dannato Paese capace di credere che sia la “burocrazia” ad affossare l’economia. O forse semplicemente finge di crederci come alibi alla propria cattiva coscienza.
Certo sono morti solo cinesi e dunque chissefrega, visto che grottescamente agitiamo la nostra inconsapevole xenofobia o facciamo mostra di una incontenibile arretratezza guardando alla Cina con gli stessi occhi di Marco Polo o della rivolta dei Boxer, nel caso di persone particolarmente acculturate. Non ci rendiamo conto della realtà. Forse per questo negli anni ’80 esportavamo verso Pechino i mezzi di produzione, col retro pensiero che mai e poi mai i musi gialli avrebbero potuto farci concorrenza. E adesso quegli stessi esportatori si trovano a fronteggiare prodotti non solo a prezzo inferiore, ma spesso anche di migliore qualità anche se ancora i media ci portano al pascolo con le t shirt e i piccoli tycoon dell’Italia da bere se lo sussurrano tra loro, garantiti dai conti accumulati dei paradisi fiscali .
Tuttavia è vero che spaventa il silenzio o la flebile voce dei sindacati. Perché l’economia di Prato che vive ormai di affitto dei capannoni dove una volta erano gli abitanti della città a lavorare, non è che un’anticipazione di ciò che ci attende: anche il lavoratore italiano starà nel cartongesso e dietro le sbarre e magari al servizio di un padrone cinese che nel frattempo si è arricchito con i suoi schiavi importati. Del resto la svendita salariale, sociale e fiscale ( me quest’ultima volta verso i ricchi) è ormai la filosofia vincente da Oslo a Lampedusa, con paradisi fiscali di classe e forza lavoro da terzo mondo: la chiamano sfacciatamente e bugiardamente competitività. Interessa il profitto non certo il passaporto o il colore della pelle dello sfruttato. Chi pensa che si tratti di un problema di cinesi non sta capendo nulla e non vorrei che anche i sindacati fingano di non avere il sospetto o l’intuizione che attraverso questo tipo di immigrazione “chiamata” si sta semplicemente imponendo a tutti un’idea di lavoro senza diritti e a bassissimo salario, un ritorno senza freni ai tempi della rivoluzione industriale.
Ma che volete quando dopo vent’anni che si è creata questa realtà il sindaco di Prato rivendica il merito di “aver alzato il velo su questa vergogna radicata a Prato nel silenzio di troppi”, cascano le braccia. Intanto perché semmai il velo l’hanno alzato i disgraziati morti nel rogo e poi per la faccia tosta di farsene anche bello. Saprei io qual è l’uso migliore per questi tipi di veli sollevati, compresi quelli della produzione griffata che viene venduta con un ricarico di cento volte. In realtà i pratesi sono spaventati non dal rogo, ma dal progressivo spostamento di attività dei grossisti cinesi che stanno delocalizzando in altre aree del Paese e particolarmente nel bresciano come avverte uno studio del Cnel (l’ente “inutile” che il mandarino Renzi vorrebbe abolire, cos’è questa tutta questa voglia di sapere, gli è roba da bischeri). Però non possiamo dire che in Italia ci sono economie locali che già vivono di economia schiavizzata con la complicità di tutti i poteri. Si fa, ma non si dice. Almeno per ora.
@ eurgenio bongiorno
No. nell’articolo non viene evidenziato il fatto che il lavoro cinese è stato tollerato e incoraggiato da delle amministrazioni di sinistra che tutto dovevano fare fuorché permettere una latente schiavutù. Quando il sindaco dice che è stato “alzato un velo pietoso” parla a ragion veduta, forte dei circa 2.000 controlli annui che il nucleo interforze (CC-PS-Isp.Lav.-ASL-GdF-VV.UU.) ha effettuato da quattro anni a questa parte. Una strage che forse (e sottolineo forse) poteva avverarsi prima in uno di quegli stanzoni sequestrati. Dietro allo sfruttamento dei cinesi lavoratori coercitivi ci sono innanzitutto i propri connazionali che lucrano già dalla venuta in Italia dei clandestini, poi gli industriali e infine ultima ma non ultima, una classe politica miope e inetta. Posso assicurarti che io, in qualità di dipendente, ho fatto corsi per la legge 81, per l’antincendio, per il primo soccorso in ogni associazione (Cisl/CNA/Confartigiano/Commercianti) e che a questi corsi mai e poi mai era presente un cittadino orientale. A Prato hanno fallito in molti, ma più di tutti anche i sindacati che si sono rivelati impotenti “perché non possiamo costringere a regolazzirasi persone che non vogliono” (Servizio Pubblico del 2/12/13). Inoltre, in quanto pratese, posso parlare a ragion veduta quando affermo che il governatore della Toscana Enrico Rossi sapeva nel dettaglio ciò che succedeva a Prato e anzi, delle volte ha esecrato i metodi del Comune.
@Adelino Ignesti
Scusa, non è forse scritto questo nell’articolo ed il pensiero di fondo?
“Crisi”, parola divenuta così frequente, da essere pronunciata al posto di “ciao”. Parola con la quale si fanno i conti sempre in rosso per i sempre più numerosi poveri. Crisi che non ha per tutti lo stesso identico significato. La globalizzazione che doveva essere la panacea, ha in realtà creato discriminazioni sempre più localizzate, decretando il fallimento dei territori. Si prenda ad esempio Prato, non più cittadina italiana, ma una new-town cinese che ha significato la morte del tessile e delle piccole imprese a vantaggio di uomini provenienti dal Sol Levante che fanno concorrenza sleale arricchendosi sulle spalle dei loro connazionali e degli stessi italiani. Fabbriche dove un tempo la laboriosità italiana era un marchio doc, divenute oggi baraccopoli dove staziona una manodopera pagata quattro soldi, impiegata davanti ad una macchina da cucire dove non c’è differenza tra giorno e notte. Prodotti taroccati che hanno invaso il mercato per mancanza di controlli non effettuati capillarmente. Euro che girano nelle mani degli schiavisti cinesi, divenuti ultimamente datori di lavoro degli stessi italiani che per la crisi si adattano alle loro condizioni pur di sopravvivere. Intanto viene da chiedersi se sui money-transfer ci siano delle tasse da pagare, dal momento che noi ne paghiamo anche per l’aria che respiriamo. Di questo passo la Cina crescerà a dismisura grazie al nostro impoverimento e all’accesso del credito che le banche gli concedono senza battere ciglio. Così mentre da noi il lavoro si perde, oggi loro sono concorrenziali anche nell’apertura di scuole private, esclusive per i loro rampolli, dove una retta costa parecchio, inaccessibile ai cinesi poveri che devono condividere con i poveri italiani aule fatiscenti e sempre più scadenti.
Questo articolo contiene delle inesattezze colossali. Non sto qui ad enumerarle tutte, ma è mia premura specificare che qui siamo a digiuno completo e cosciente nonchè consensziente, delle norme di sicurezza previste dal d.lgs 81. Nell’articolo vengono evidenziati ovvii motivi, tra cui una specie di condanna al sistema capitalistico, che non tiene conto della voglia di capitalismo dei cinesi stessi: lavorare a Prato per tornare in Cina da pseudo-ricconi (un vasto terreno può costare fino a 500 euro. Tutto!). È semmai il sogno del socialismo che è crollato e si è avvampato di fiamma viva causando delle vittime innocenti forse, ma inconsapevoli sicuramente. Tutti sapevano e sanno della situazione circa l’illegalità latente del distretto parallelo cinese. Tutti conoscono e conoscevano i rischi in quanto da tempo passano servizi sulla Tv dove il problema è denunziato e ripreso dalle spietate telecamere (chiedete a Sandro Ruotolo, l’inviato di Santoro, che pure ci fece un servizio). Non c’è differenza tra la Ilva di Taranto e Prato neppure per ciò che riguarda i governatori entrambi consci dei rischi per i lavoratori. L’unica differenza è che uno rideva con i potenti mentre l’altro si copriva gli occhi per non guardare.