Anna Lombroso per il Simplicissimus

Ma il vecchio detto non recitava “scuola, maestra di vita”?

Il mondo va alla rovescia e l’ultima novità è che invece si è rivelata maestra di morte, dopo che Lorenzo Parelli, 18enne di Castions di Strada, in provincia di Udine, nel suo ultimo giorno di stage in fabbrica è stato colpito da una putrella nello stabilimento di carpenteria metallica di Lauzacco della Burimec Srl, mentre era intento a completare l’allestimento di un macchinario. Proprio lunedì sarebbe rientrato a scuola per proseguire il “percorso di formazione” nell’ambito  dell’alternanza scuola -lavoro.

Eh si, il mondo va alla rovescia: anche la storia ha smesso di essere maestra di vita e vigono silenzio e oblio  sulla sua lezione. Così è stato steso un velo di ipocrita smemoratezza sull’entusiasmo con il quale il governo Renzi salutò quella sintesi delle teorie criminali che avevano ispirato Jobs Act e Buona Scuola, per cancellare diritti e conquiste scomode, realizzando la visione di una istruzione volta alla formazione di piccoli quadri esecutivi, addetti a una unica mansione servile, disposti a tutto per ottenere e conservarsi il posto  conquistato dopo un sedicente tirocinio educativo all’obbedienza, alla rinuncia, all’accettazione mansueta del ricatto e dell’umiliazione, più che all’apprendimento di un mestiere.

L’abbietta pedagogia dei polli di batteria della Leopolda e dei loro santoni sciorinava i casi di successo di scellerati ribaldi che si vantavano di aver tracciato il solco con il volontariato dei Grandi Eventi, l’Expo, le mostre degli assessori che appaltavano le guardianie alle cooperative dal caporalato di ragazzini che amano l’arte e sognano che si aprano le porte del Dams, o, peggio, nel teatrino del norcino della real casa che esibiva le sue massaie rurali e i suoi festosi casari in Fico, mentre sconfezionavano i prodotti del supermercato alleato dell’inganno delle caciotte.

Nessuno ha ricordato come esultava il ministro Poletti, l’ultrà talmente posseduto dalla militanza cooperativa da andarne a celebrare i fasti insieme ai vertici del Mondo di Mezzo, quello che voleva fare la cooperazione allo sviluppo alla rovescia, proprio come la sua lotta di classe di padroni contro lavoratori, mutuando le abitudini testate con successo dai Benetton e sfruttando ragazzini nostrani costringendoli a ripetere i miti deamicisiani, muratorini, tipografi, scrivani nel fastoso 2000.

Tanto che ebbe a dire che raccomandava anche alla sua prole il lavoro estivo, così istruttivo ed edificante. E c’è da giurarci che abbiano fatto lo stesso altri genitori eccellenti con i rampolli che nuotavano nel delfinario progressista, mandati, tra il mese all’Argentario e la vela a Caprera, a  formarsi au pair a Londra o a New York in omologhe case patrizie in attesa di intraprendere brillanti carriere meritate in atenei esclusivi come Fornero/Deaglio Jr, nei santuari dell’economia liberista come Reichlin/Castellina Jr, nella prestigiosa industria punta di diamante come Draghi/Cappello Jr e così via.

Non sappiamo l’età e il corso di studi di Lorenzo e Antonio Bianchi, c’è da augurare loro che si siano sottratti all’influenza di un padre che, in occasione di un  incidente mortale sul lavoro, uno quegli assassini che vengono chiamati morti bianche, ha la faccia di tolla di dichiarare: “La morte di un ragazzo di 18 anni durante un’esperienza di stage provoca profondo dolore… il tirocinio deve essere un’esperienza di vita“.

Altro che tirocinio,  l’alternanza è una forma di sfruttamento dei giovani praticata ampiamente durante il fascismo con il nome di “avviamento al lavoro”, e che come allora mira a togliere “dalla strada dove bighellonano”, secondo la definizione di Poletti,  o da una zona tristemente grigia, i giovani disillusi e renitente allo studio, che non hanno un’occupazione e che potrebbe rivelarsi delle mone vaganti, esplosive, esposte allo scontento e al malessere sociale, al fine di  irreggimentarli nell’esercito che deve muoversi e andare come e dove vuole in padronato, in modo che  imparino da subito l’ammaestramento di un’esistenza vita, dove l’unico diritto concesso è quello di faticare e l’unico dovere è rispondere si a intimidazioni e minacce a norma di legge, e dove tutto deve essere mobile e precario, in modo che sia introiettata quell’incertezza che persuade  a subire i ricatti come un codice fatale.

Bisogna ammettere che non c’è stato inganno, quando la Legge n. 107/2015, quella che ha disegnato l’impianto della Buona Scuola,  ha ribadito l’importanza di affiancare al sapere il saper fare, intensificando i rapporti della scuola con il territorio, con il mondo produttivo e dei servizi, “innovando” la didattica  e orientandola all’acquisizione di “competenze spendibili nel mondo del lavoro” e  promuovendo “la cultura dell’autoimprenditorialità“, anche grazie alle nuove tecnologie.

Si doveva capire che il futuro immaginabile era quello sceneggiato e girato negli States, quello delle magnifiche carriere replicabili nei garage padani o calabresi, delle startup lanciate coi risparmi dei nonni, o peggio del successo della libera iniziativa dell’accoglienza destinando a B&B la casetta al paesello o la camera del nonno che favorisce il sogno dei discendenti trasferendosi in ospizio.

E non era imprevedibile che l’ingegnosi espediente servisse a tappare buchi di un’occupazione  stagionale rifiutata da adulti che non erano disposti a ricevere una paga irrisoria e umiliante oltre che un lavoro precario, preferendo colpevolmente il reddito di cittadinanza.

Così come si poteva capire che una scuola pubblica sempre più impoverita di mezzi e risorse professionali poco valorizzate e umiliate non sarebbe stata competitiva con quella privata e neppure con l’università della vita, referenza che campeggia sui profili dei social, con l’effetto di far annusare un  profumo di indipendenza a ragazzi pronti a lasciare i banchi per salire sul motorino per le consegne, a mettersi davanti a un macchinario, a impilare scatole in un magazzino.

Non stupisce di certo che genitori e ragazzi ci siano cascati, oggi ancora di più se due o tre generazioni di sono fatte persuadere dell’obbligatorietà di diventare cavie a ripetizione per non essere escluse dalla società, incuranti più che inconsapevoli che un’occupazione sempre più precaria e a rischio, da quando è stata smantellata la rete dei controlli di sicurezza limitati al contrasto al Covid e alla sorveglianza delle misure di discriminazione del Green Pass, appoggiate incondizionatamente da sindacati che hanno fatto da manutengoli a un patto scellerato che garantiva immunità al padronato, non è un “posto” per ragazzi.

Non lo è nemmeno per adulti, per donne, per cinquantenni che devono improvvisarsi in mansioni nuove per corrispondere all’immagine di un capitale umano dinamico, per ultrasessantenni troppo giovani per andare in pensione e troppo vecchi per decidere della propria vita e delle proprie scelte.  Ormai si è capito, l’Italia non è un Paese per poveri.