Anna Lombroso per il Simplicissimus

Lo ammetto, guardo con una certa tenerezza, ma senza nessuna indulgenza, gli equilibrismi acrobatici dei compagni che si interrogano: andare o non alla manifestazione di sabato indetta dalla Cgil in inedita veste di vittima del fascismo nostalgico.

Dò  loro atto che, visto che non contano nulla nell’arena della politica e dell’informazione, i loro dubbi non sono quelli morettiani: mi si nota di più se ci sono o se non ci vado? Ma solo moti di carattere emozionale, sentimentale, di chi si sente ormai straniero in patria o apolide mentre dovrebbe invece sentirsi tradito perché i territori dei quali conosceva il paesaggio si sono riempiti del cemento di interessi opachi, quelli della sopravvivenza di istituti che si sono convertiti ai mestieri disonorevoli del liberismo: vendere consulenze, fondi, assicurazioni,  e della necessità di mantenere uno spazio di influenza presso i poteri venendo meno al  mandato di testimonianza e rappresentanza.

Di solito l’incipit delle loro confessioni da piccolo gruppo di autocoscienza consiste nel rendere partecipi gli interlocutori del dubbio, andarci o no? ma a concludere è la toccante decisione di esserci, a scopo dimostrativo della solidarietà: nei confronti di qualcuno che la merita solo per via dell’etichetta rievocativa del passato, come quelli che compravano l’Unità diretta dalla Concita o che oggi si abbonano al manifesto diretto dalla diversamente Concita che oggi parla del “rischio” delle proteste, e della militanza in un antifascismo pret à porter, alla stregua dell’ambientalismo dei giardinieri e della green economy senza olio di palma o del femminismo delle quote rosa in forza al neoliberismo, quello educato cioè che odia la violenza soprattutto se rischia di essere animata dalla lotta di classe e sfociare in insubordinazione e rivolta.

Nemmeno l’immaginetta votiva di Landini dolcemente allacciato a Draghi li ha convinti come d’altra parte non li aveva persuasi la celebrazione del Primo Maggio con Confindustria, a loro che pensano di avere l’esclusiva delle piazze democratiche che non si fanno infiltrare dalla destra.

E d’altra parte se n’erano fatti una ragione che il sindacato che più degli altri aveva testimoniato dei bisogni della classe lavoratrice si fosse ingoiato la cancellazione dell’articolo 18, ricordata una volta l’anno per annunciare una battaglia tenace e audace per il ripristino ma scaduta la mattina dopo come il latte, che avesse rinviato al primo maggio successivo anche quella contro la legge Fornero, che avesse sostanzialmente approvato una cinquantina di provvedimenti per introdurre e applicare la precarietà e la mobilità nella convinzione che finte partite Iva, rider, part time, lavoro nero, vittime del caporalato e del nuovo cottimo non facessero parte dei loro target di tesserati.

Per non parlare del Jobs Act al quale hanno dato silente approvazione pensando a un recupero dell’istituto della cinghia di trasmissione stavolta con il Pd. O della Buona Scuola che ha messo una pietra tombale  sull’istruzione pubblica e sulle possibilità di riscatto cosciente e consapevole degli esclusi dal sistema dei privilegi che assicurano un futuro e l’esprimersi di talenti.

Ultimamente avevamo visto fare la voce grossa alla Cgil, è vero, ma non per fermare lo sblocco dei licenziamenti, dando credito alle promesse di mettere mano agli ammortizzatori sociali, non per gli ignobili capestri rappresentati dalle riforme che condizionano l’erogazione delle elemosine europee, macchè, nemmeno per la semplificazione introdotta nelle regole per gli appalti, criticata prudentemente all’inizio, poi riposta nel cassetto in veste di battaglia velleitaria se non irresponsabile quando tutti dovrebbero contribuire ai cantieri della ricostruzione. L’unica reazione che poteva far pensare a una esistenza in vita si è avuta – e pare una gag del Bagaglino –  all’ipotesi che le restrizioni del green pass venissero adottate anche per le mense, contenzioso perso anche quello in cambio dell’estensione del lasciapassare a tutte le attività lavorative.

Saliti da tempo sulla stessa barca, equipaggiati dei salvagente concessi a chi applaudiva ai principi ideali di poletti, alla realpolitik degli economisti/editorialisti a libro paga della gazzetta confindustriale contro i lacci e lacciuoli che imbrigliano la libera iniziativa, alle riforme della Bellanova, in prima linea nel contenere le manifestazioni per la richiesta di sicurezza e tutele in fabbrica nel marzo 2020, oggi i vertici del sindacato dal glorioso passato sono deliziati e appagati di essere ammessi all’augusta presenza del  marinaio del Britannia, del liquidatore della Gracia che li esibisce come barboncini ben pettinati.

Tanto che più realisti del re travicello brigano per spegnere i fuochi di “rivolta” di portuali, ferrovieri, insegnanti, personale sanitario offrendo come compensazione a discriminazione, repressione, sanzioni e delazioni il cui marchio di fascismo doc è esplicito, i tamponi gratuiti, cioè a spese di tutti i cittadini come d’altra parte i vaccini, o, proprio per esuberare dal “minimo sindacale” a carico dei datori di lavoro, che come è noto non sono solo multinazionali strutturate, imprese statali assistite, ma piccole e medie imprese predestinate alla cancellazione secondo i criteri deel Grande Reset per via della loro inadeguatezza parassitaria a raccogliere la sfida della modernità.

Viene quasi voglia di scomodare la tanto abusata psicoanalisi per diagnosticare dietro alla smania di confermare la funzione di negoziatori davanti al convitato di pietra che nulla concede, qualcosa di più profondo una invidia vendicativa  per chi sa ancora resistere, per chi non si accontenta di promesse taroccate e non intende cedere a ricatti e intimidazioni. O un malanimo invidioso per chi non rinuncia a nessun costo a dignità e libertà.