Anna Lombroso per il Simplicissimus

Come se non bastasse quella militare,  è in corso una campagna per delegittimare la conoscenza e il sapere. È condotta su vari fronti: comincia col sostenere che possono parlare solo quelli la cui competenza specialistica è certificata da un titolo di studio appeso in cornice dietro la poltrona dalla quale concionano davanti alle telecamere, in modo da autorizzare una  percezione della preparazione e dell’esperienza che sia solo accademica e autoreferenziale.

Si tratta di un accorgimento in uso per consolidare l’autorità di soggetti che vivono distanze remote da noi, dalle corsie degli ospedali e dai laboratori di ricerca  e che ormai si misurano con algoritmi e formule, come d’altra parte fanno anche gli economisti chiamati a decidere il modello di sviluppo più appropriato per l’avidità e l’accumulazione in favore di pochi. Il fatto è che più un decisore è lontano, enigmatico come una sfinge, inattaccabile e impermeabile alle nostre miserie e più appare poco soggetto ai vizi della miserabile normalità,  abbastanza ricco per non rubare, abbastanza affermato per non intrigare, abbastanza sapiente per non dover fare la fatica di imparare qualcosa in più.

Mentre si deve mostrare insofferenza fino alla censura per quelli che si sporcano le mani, per quelli che si schierano e dunque dissentono da narrazioni ufficiali, si tratti della pandemia, della riduzione di diritti alle sole tutele sanitarie, del lasciapassare e della sua funzione si strumento per la discriminazione e il licenziamento, o si tratti delle foibe, quindi della manipolazione della storia a  fini strumentali, quello soprattutto di rimescolare tradimenti e fedeltà, licenze e libertà, coraggio e viltà, sopraffazione e solidarietà in un unico pastone da mettere nella grande mangiatoia del pensiero unico.

La virologa che mi vuole il campo di concentramento perchè non mi assoggetto ai preparati anticovid, non è poi diversa da chi vuole che Montanari venga esonerato per aver avuto l’ardire di contestare la storiografia del falso, o da chi pretende il dileggio e l’ostracismo per i filosofi che osano discettare dell’abuso a scopo politico e industriale della scienza, fuori delle loro stanze con le pareti tappezzate dei sacri tomi.

C’è poco da dire, il potere totalitario accetta che i confini che ha segnato per circoscrivere le sue proprietà vengano varcati solo da personale mercenario e da portatori d’acqua, in modo che nessuno possa avanzare la pretesa di fare gli “affari loro”, di mettere in discussione le certezze con le quali da secoli o da decenni hanno persuaso i cittadini di agire per il loro bene, disinteressatamente.

Sono di ieri due notizie che riguardano l’opera che se la contende con altre macchine da malaffare per avere il primato assoluto della corruzione e3 dell’imperizia: il Mose, la formidabile opera ingegneristica che doveva salvare Venezia dalle acque.

Nel giorno in cui viene formalizzato che il completamento dell’intervento slitterà di (almeno) altri due anni e che il suo costo complessivo  toccherà per ora i 6,5 miliardi di euro, la risposta alla richiesta del il commissario straordinario sblocca-cantieri Elisabetta Spitz che aveva chiesto l’accantonamento di 53 milioni di euro per effettuare i lavori alle bocche di porto e il primo avviamento, supera la sua stessa immaginazione più fantasiosa.

E infatti si porta a casa il doppio della cifra richiesta,  quasi 110 milioni stanziati grazie alla firma del Settimo Atto aggiuntivo, l’accordo tra il Ministero delle Infrastrutture e il Consorzio Venezia Nuova ormai in liquidazione  e che così permetterebbe   la conclusione, salvo ostacoli “eccezionali” la conclusione dei lavori. I quattrini dovranno limitarsi quindi al completamento delle strutture  e alla loro messa in opera, mentre le azioni di salvaguardia ambientale sono rinviati a beneficio della tutela del Consorzio allo scopo di scongiurare malsane “situazioni di tensione economico-finanziaria come quella che si è da ultimo registrata”.

Insomma il Mose è per Venezia e per i bilanci dello Stato, una condanna da scontare fino alla fine. Ancora più paradossale e ingiusta a leggere i risultati di uno studio pubblicato dalla rivista Natural Hazards and Earth System Sciences, e condotto da un gruppo di lavoro coordinato da ricercatori dell’Università del Salento, dell’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche (soggetti che a suo tempo perorano la soluzione delle dighe mobili)  e dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che grazie a una serie di una serie di proiezioni sull’innalzamento del livello del mare  mette in dubbio l’efficacia dell’opera: nemmeno mantenendo il Mose costantemente attivo si potrebbe porre un argine realmente efficace atto a scongiurare catastrofiche alluvioni a Venezia.

C’è da aspettarsi che il team di ricercatori venga assimilato a altre categorie di  catastrofisti e complottisti, alla pari di scienziati in odor di eresia che non meritano le passarelle televisive e nemmeno il red carpet del Lido

Eppure quando un concorso di poteri forti imprenditoriali e bancari scelsero il progetto più costoso, più pesante, più rigido per via delle sue ricadute economiche che si capiva sarebbero durate a tempi indefiniti, con torrenti di denaro opaco e tossico, di scienziati e tecnici che avevano proposto soluzioni alternative meno  dissipatrici, che comportavano minori pressioni sull’ambiente, già testate con successo altrove, ce n’erano stati, zittiti e ridicolizzati come pazzi e visionari, misoneisti e neofobici, mentre avevano semplicemente ipotizzato, dati alla mano, quello che oggi viene rivelato come un imprevedibile cigno nero.

È che il nostro tempo così apparentemente dinamico ci mette troppo a stabilire la verità e intanto si moltiplicano i danni, si contano i morti, prevale la protervia di chi non vuol far sapere e l’ignoranza di chi non vuol sapere.