Anna Lombroso per il Simplicissimus
Ormai si respirano solo veleni, lo testimonia il fatto che perfino gli elogi funebri diventano occasione per prendersi rivincite tossiche. Come nel caso dell’esangue Flores d’Arcais che approfitta della sua testimonianza in ricordo di Giorgio Ruffolo scomparso qualche giorno fa per dargli del codardo posseduto dai demoni del potere e assoggettato al cinghialone, tanto da non voler ospitare su Micromega una inchiesta di cronaca sul malaffare milanese, in modo da rivendicare di essere già da allora, lui Flores d’Arcais l’unico custode dell’ideologia e della tradizione di “sinistra”. Inutile ricordare che faceva parte di quei virgulti assoldati dal furbo leader per dare credito e reputazione attraverso circoli e riviste come Mondoperaio a quella che si stava trasformando in una macchina instancabile di dominio politico, culturale ed economico. In realtà – il quadretto dipinto con vibrante ironia nel libriccino intervista “Il libro dei sogni” – non lascia dubbi sulle considerazione nella quale Ruffolo, vezzeggiato almeno quanto deriso per la fama di sognatore superfluo se non controproducente in un sistema che premiava ambizione, arrivismo, profitto e speculazione. “chi era Craxi?…che strano nome, sembrava un questurino, un omone che scortava l’allora segretario Mancini , sconfitto ben presto dagli equilibri politici nazionali… il rilancio del partito avrebbe dovuto aspettare l’omone”.
L’omone sapeva bene di aver bisogno di una facciata autorevole, per anni vezzeggia la cerchia degli intellettuali più prestigiosi – allora si usava dire così- con quei suoi modi passati alla leggenda, li convoca, li prende sottobraccio affabilmente raccontando aneddoti, come era un suo vezzo, non aspettandosi risposte perché faceva tutto da solo con piccoli muggiti e pause ben studiate. Era proprio un gran seduttore e un formidabile manipolatore. E infatti li convinse tutti, Cafagna, Giugni, Momigliano, Guiducci, alcuni dei giovani lombardiani che poi finirono nel manipolo della sinistra ferroviaria, a farsi partecipi di un grande progetto per l’alternativa socialista e riformista guidato e realizzato da un partito moderno che voleva combinare sviluppo equo, diritti sociali e civili. Si capì presto la natura del tradimento, fa autocritica Ruffolo, quando al congresso del “nuovo” partito a Torino si capì che quel gruppo era la “foglia di fico”, la copertura ipocrita della quale, ammette, il gruppo degli intellettuali reca una grave responsabilità. Come ebbe a dire un disinvolto dirigente della sinistra, “la politica ha bisogno anche di quelle puttanate”, roba buona per seminari, assise culturali e le location di Panseca. Dal ’78 in poi l’involuzione subì un’accelerazione, la spregiudicatezza mostrata nel conferire il progetto nel cassetto delle illusioni, né più né meno dell’occasione mancata della Programmazione, prese la forma della corruzione, del malaffare, del sistema delle tangenti. Ricorda Ruffolo che un vecchio socialista amico di Turati e Nenni, diceva che “per fare il socialista onesto bisogna essere ricchi”, disilluso e amareggiato per il caso Petromin, un affare spia di un processo degenerativo capace di corrodere le fondamenta del sistema politico della prima repubblica, e poi via via un susseguirsi di operazioni criminali senza giustificazioni, anche se coinvolgevano tutta la “politica”. Eppure a differenza di altri, Ruffolo non è stato uno sconfitto, anche se ha misurato l’impossibilità di realizzare un mondo migliore, più giusto e rispettoso, incompatibile con la prassi, le ambizioni, il narcisismo, i limiti degli uomini. Ha scritto libri che hanno lasciato e lasceranno un’impronta, per questo è stato ricordato come una figura potente del dibattito ideologico, culturale e morale del Paese.
A me piace ricordarlo come appare (e era) in quel volumetto “Il libro dei sogni”, nel quale in ogni riga riappaiono una figura o un nome dimenticato (chi se lo rammentava Stammati?), un evento rimosso ma che profetizzava quello che sarebbe avvenuto. Mi piace ricordarlo dai suoi racconti di intrepido Trozkista nella gelida soffitta di Maitan, alle prese con le fantasiose speculazioni finanziarie dell’amatissima mamma, vicino a Edda la più generosa e accogliente tra le signore di quella cerchia. Come nella poesia di Hikmet non si è peritato, nemmeno colpito da una tremenda simbolica cecità, di guardare e vedere lontano, piantando un ulivo ben oltre gli 80 anni non perché un giorno sia dei nipoti,ma perché, avendo paura di morire, tu non credi nella Morte perché la vita trabocca. Tutti hanno scritto che era un uomo gentile.. forse un gentiluomo, perché sapeva essere tagliente e affilato, ironico fino al sarcasmo. E curioso, divertente, come quando rammentava che mandato da Mattei a ricevere il fratello dell’allora scià di Persia si presentò con la sua sgangherata Topolino, o come quando aspettandoci nel parcheggio di Piperno, convocati per un buon fritto, si mise da ministro in carica a lavare la macchina (anche quella malridotta), preso per un molesto polacco dell’era Woytila, capace di essere vicino agli amici con timida e riservata solidarietà, ingenuamente meravigliato, malgrado una vasta esperienza, dalla farraginosa macchina burocratica ministeriale: un’incursione a sorpresa all’Acna di Cengio “attenzionata” dalle autorità di controllo e giudiziarie, richiedeva un mese su per giù di allestimento. Ci mancherà, lui che sapeva apprezzare le delizie della vita secondo Keynes, musica, arte, memoria, poesia, quelle che il profitto e lo sfruttamento non devono farci dimenticare per restare vivi e persone.
Quanti anni luce dista da poesia chiunque si occupi anche solo attimo fattivamente di politica?…!!…https://ilgattomattoquotidiano.wordpress.com/