Anna Lombroso per il Simplicissimus

Allora abbiamo capito che il Renzi non sa fare due cose insieme. O fa il candidato alle primarie di se stesso o fa il sindaco. E non è detto che sia una disgrazia:e non soltanto perché forse così si potrebbe eludere il conflitto di interesse. Ma perché in certi casi, come tempo fa a Bruxelles, certi paesi e certe città forse sembrano funzionare meglio se il governo, nazionale o locale che sia, è in viaggio.
Così c’è da augurarsi che in sua assenza, magicamente, si possa procrastinare se non addirittura evitare un nuovo, ma fortemente simbolico, atto di svendita di quel bene comune che è la città. Simbolico perché non si tratta di un oltraggio particolarmente vistoso. E nemmeno la cifra della transazione opaca vale più di una mancetta, 20 mila euro che il privato, accontentato benevolmente dal Comune, eroga con magnanimità a beneficio di Firenze per “abbellimenti”. Ma è potente invece il rischio di creare un precedente, moltiplicabile e ripetibile in forma seriale nel Paese dove la trasgressione diventa primo sottovalutato, poi tollerato, poi sanato, poi favorito, che, si sa, condoni, licenze, scudi, fanno cassa e consolidano i vincoli di complicità con chi conta.

In questo caso il beneficato è il prestigioso Hotel Baglioni, una costruzione ormai storica collocata di fianco a Santa Maria Novella, che, come spesso succede nasce come pugno nell’occhio incongruo, ma che negli anni da “superfetazione” ingiuriosa, è diventata presenza ammessa e ormai irrinunciabile.
Ma invece di accontentarsi di essere stato accettato dal paesaggio urbano e umano di Firenze, il Baglioni vuole di più, in modo da offrire alla doviziosa incontentabile clientela un roof garden in modo da allungare la mano libera dal bicchiere del Martini cocktail, per sfiorare cupola e campanile, in una illusione medicea di onnipotenza. Peccato però che nel centro della città storica viga una regola cui finora nessun podestà, nessun federale sindaco aveva osato venir meno e che nessun privato aveva osato sfidare: gli edifici esistenti non possono superare l’altezza di venti metri. Quando l’hotel Baglioni ha chiesto di poter soprelevare oltre il consentito l’ultimo piano dell’edificio la commissione edilizia comunale bocciò l’istanza forte del regolamento urbanistico vigente, che ammette un’unica eccezione: che la richiesta sia originata da motivi di assoluta necessità da una struttura pubblica.

Era il luglio 2011. Un anno dopo una nuova riunione della commissione edilizia aggira l’ostacolo: miracolosamente, forse per la contiguità con il complesso di Santa Maria Novella, al Baglioni viene riconosciuta la qualità di edificio di pubblico interesse e per di più si identifica nella soddisfazione dell’esigente clientela dell’Hotel una improrogabile necessità.
È sicuro che in tempi di grillismo saranno in molti a sospettare passaggi clandestini di mazzette e regalie, occulti finanziamenti alla campagna del sindaco, funzionari infedeli e sleali. Ma verrebbe da dire, magari! Ci sarebbe una spiegazione miserabile, avvilente, ma congrua con antiche tradizioni di corruzione concreta, reale, materiale. Invece è sempre più probabile che all’origine ci sia solo un entusiastico adeguamento al pensiero forte che vuole che la “necessità” del profitto sia inderogabile, che l’opportunità del mercato detti legge più delle leggi. Quelle della giustizia e quelle della storia, della bellezza, dell’interesse generale.
Lo stesso è successo ad Urbino, dimentico della aggraziata e gentile riforma urbanistica di Federico da Montefeltro, ha sbancato le eleganti propaggini dell’Appennino per collocarci un centro commerciale, tassativo e irrinunciabile, se il sindaco ha dichiarato alla stampa che era ora di dotarsi di un monumento del commercio, senza il quale Urbino avrebbe subito l’onta di essere “l’unica città senza un centro commerciale adeguato alle esigenze di cittadini”. Ecco, così gli urbinati non dovranno più vergognarsi, mica si vive solo di Raffaello.

E a Bologna, grazie a uno degli ultimi atti firmati dalla Commissaria Cancellieri, la giunta ha approvato il progetto di riqualificazione della zona compresa tra via Oberdan, vicolo Tubertini, Mandria, e Limbo, che comprende il rifacimento del manto stradale, l’illuminazione, il riordino della segnaletica, rimozione e sostituzione dei cassonetti e delle cabine Telecom, tutto spesato dall’immobiliare Immobildue, che sta eseguendo il restauro di palazzo Tubertini e la Torre. Lo so, qualcuno dirà, non siete mai contenti, ben venga l’intervento dei privati.
Ma vale sempre la differenza tra collaborazione, contribuzione ed egemonia. E soprattutto tra opera di pubblico interesse e speculazione. Eh si perché il rifacimento estetico dell’area – con avveniristiche cabine del telefono, efficienti cassonetti pedagogici, l’acciottolato al posto del granito richiesto dalle associazioni per favorire il transito dei portatori di handicap – che ai volonterosi mecenati privati costa solo 35 mila euro, prevede oltre a caffetterie, gallerie di negozi, un programma di “sviluppo del restauro e dell’offerta immobiliare del patrimonio riqualificato delle abitazioni private al piano di sopra”.

Quello che davvero avvilisce è che ancora una volta ha vinto il ricatto. I cittadini accettano senza obiettare a Venezia, a Roma, a Urbino, a Firenze, a Bologna e accetteranno con altrettanta accidiosa rassegnazione la spoliazione e l’esproprio dei quel bene comune fatto di strade, luoghi, memorie storiche, ricordi di infanzia, che è la vera ricchezza che ci resta, su cui lo stato dovrebbe investire come in un formidabile new deal perché produrrebbe occupazione, valorizzazione di tecnologie e materiali, consolidamento della nostra immagine e incremento della competitività.
Se le città sono il teatro dove si svolge l’iniqua e incivile rappresentazione della ideologia al potere, la liturgia della teocrazia del mercato, è evidente che dobbiamo riprendercele; che dobbiamo partecipare per favorire il coagulo degli argomenti e delle formazioni che esercitano una cittadinanza attiva, delle migliaia di luoghi dove si stanno sperimentando modi nuovi di “fare politica”, di occuparsi insieme del destino di tutti, a Taranto come nelle città d’arte perché siamo in guerra contro chi ha reso le condizioni dell’ambiente fisico e del paesaggio sempre più inquinati e sgradevoli, ricchi di pericoli e privi di qualità; quelle della salute dell’uomo sempre più precarie, esposto a malattie e a rischi di degradazioni biologiche; quelle della vita urbana, sempre più incivili, caratterizzata dalla carenza di servizi per tutti, di spazi condivisibili da tutti, di luoghi collettivi accessibili da parte di tutti.

Nella città si esaltano la precarietà della condizione lavorativa, della certezza di un reddito adeguato alle necessità della vita sociale, si consumano i crimini contro diritti fondamentali con la privatizzazione, aziendalizzazione e commercializzazione di beni pubblici essenziali, come l’acqua, la salute, la formazione, la bellezza. Bisogna riprendersi il territorio della cittadinanza e non fargli vincere questa guerra.