Sono mesi che la vicenda Bertolaso serpeggia nelle cronache, che accende qualche linea di febbre come una malattia che cova prima di diventare conclamata: inchieste precise come quella de l’Espresso, ma anche mezze parole,  imbarazzi, silenzi. E soprattutto il disagio inquieto nel vedere la Protezione civile trasformata man mano in una specie di agenzia di affari a disposizione del premier più che del governo, una macchina da soldi capace di aggirare ogni regola. Uno strumento per altri mille e inconfessabili conflitti di interessi.
I particolari sono su tutti i giornali, ma quello che mi colpisce è piuttosto la parabola personale di Bertolaso che riassume nella sua metafora il processo di corruzione e dissoluzione del Paese. Com’è successo che un medico, dedicatosi alle malattie tropicali, che ha costruito ospedali nel terzo mondo, si sia ridotto ad essere l’affarista ad personam di Berlusconi? Lui, figlio di un generale dell’Aeronautica, nipote di Camillo Ruini, certo aveva la strada spianata grazie agli antichi vizi italiani, ma da qui a trasformarsi nell’uomo dell’appalto facile, nel despota dell’emergenza lucrativa e senza remore, ci corre. Tanto quanto ci corre tra l’Italia dei primi anni ’90 che sembrava intenzionata a trasformarsi e quella di oggi, piccola, incapace, corrotta. E quando va bene rassegnata. Si l’Italia dell’egoismo stupido, del razzismo, della futilità, l’Italia mediocre della pessima letteratura, dei film inconsistenti, della scuola allo sfascio e della superficialità. L’Italia plasmata dalla televisione e che non è capace di riprodurre altro che televisione anche senza telecamere.
Il grande corruttore che ride con un numero di denti imprecisati, ma tutti canini, ha raggiunto lo scopo di trasformare il Paese a sua immagine e somiglianza: un Paese decrepito che s’imbelletta ogni minuto.
Guardiamo la faccia di Bertolaso in questi giorni: troveremo qualcosa di noi.