Anna Lombroso per il Simplicissimus

Il Gotha della finanza creativa e dell’imprenditoria del fascismo fu subito catturata dall’idea di investire nella settima arte, che tanto piaceva al popolo e altrettanto al Duce che ne aveva indovinato la potenza propagandistica.

Per altri c’erano motivi familiari: la consorte dell’ultimo doge, Vittore Cini, era la diva del muto Lyda Borrelli che aveva disertato il set per dedicarsi alla famiglia, per altri il richiamo di divette prosperose e arrendevoli era irresistibile, per altri ancora era il doveroso impegno di risorse per sostenere il mito mussoliniano cui non bastavano solo i cinegiornali, e che ambiva alla costruzione della sua immagini di condottiero, quanto a quella di padre della patria e nume domestico.

Realizzata per la prima volta nel 1932, da un’idea dell’allora Presidente della Biennale Giuseppe Volpi, dello scultore Antonio Maraini e di Luciano de Feo, la Mostra raccolse subito una grande popolarità, tanto da diventare un appuntamento annuale già dal 1935.

Lo raccontano innumerevoli pubblicazioni la più mitologica che abbiamo è a firma di Flavia Paulon unica donna inserita fin dalla prima edizione nello staff e che rimase incrollabile al suo posto, conosciuta e idolatrata da chiunque approdava a quella cavana dietro al Palazzo, fino al 1987, anno della morte al tavolo di lavoro. Per una strana nemesi storica, un paio di dinastie di quella cordata di industriali fu poi rovinata proprio dal cinema con una serie di ingloriosi e azzardati fallimenti.

Il cinema dei telefoni bianchi, statu symbol più prestigioso die quelli neri, doveva segnare il riscatto della piccola borghesia e di un piccolo proletariato urbano ben descritto da Camerini,  cui proporre un modello da emulare, di successo e affermazione.  La Mostra si intreccia indissolubilmente col regime, perfino nella sanguinaria Repubblica di Salò – basta pensare al suo cartone metaforico delle 120 giornate pasoliniane,

Ma il fascino della Mostra restò vivo come uno dei pilastri  del fascismo, a metà tra la cultura popolare e quella colta, dobbiamo a Pasolini e al suo 120 giornate di Sodoma quello che è stato definito il cartone metaforico della Repubblica Sociale, con il Cinevillaggio,  la struttura per la produzione cinematografica   sorta a partire dall’autunno del 1943, dopo l’Armistizio di Cassibile, per iniziativa del Ministro della Cultura Popolare della Rsi, diretto da Mezzasoma in alternativa al complesso romano di Cinecittà.

Doveva realizzare almeno venti fila l’anno, tra Venezia e Torino, con i divi compiacenti, Ferida, Valenti, Doris Duranti, Salvo Randone che furono invece salvati dalla purga.

E continuerà a essere intriso dai valori del regime se anche dopo il neorealismo e l’irruzione del “vero” sullo schermo furono osannati nell’appena sorto festival gemello di Cannes mentre in patria furono oggetto di riprovazione, come fenomeno rappresentativo di una cultura lagosa e piagnona che tanto male aveva fatto e faceva alla reputazione dell’Italia. E poi  la  sede della Mostra si era ridotta al piccolo cinema San Marco a causa della requisizione del Palazzo del Cinema a opera dagli Alleati e questo ostacolava la competizione con il festival francese più attento al mercato e al divismo.

Ci vorranno anni di “consociativismo” culturale, di cineforum di parrocchie e Arci Cinema per ridare la sua forza propagandistica alla Mostra, interrotta dell’esperienza di quelle giornate di contestazione dl ’69 presto assorbite dall’industria e dal sistema con la celebrazione di miti e icone hollywoodiane riscattate a malapena da un fugace Ken Loach. In questa ultima versione pare abbiano riscosso insieme a altri miti sanguinari una comprensiva apologia della sofferenza di un cannibale e ovviamente il mesto declino di trans settantenni, meritevoli come è giusto di rispetto ma che non è detto rappresentino l’unico amore puro.

E poi vi meravigliate se i guitti in forza all’impero applaudono a scena aperta il collega che ha portato al macello il suo popolo o i virologi sul redi carpet che hanno fatto morire migliaia di concittadini con vaccini sperimentali, cure sbagliate, per affermare i loro pieni poteri autoritari. Vi stupite se la posto di Andreotti che non mancava mai, sfilano le mediocri figurine nel tempo libero rimasto dalla spartizioni, cercando di carpire i successi inarrivabili di influencer e divi.

E  d’altra parte al cinema riesce difficile battere la concorrenza con la realtà, trovare battagli che realizzino quelle imposte dal neoliberismo per il riscatto di minoranze sempre più stravaganti e marginali da normalizzare, i cine giornali ci sono sempre più sfrontati, sostenuti da una stampa venduta   e comprata, che vive dei miti di Hollywood né più né dei talebano sul pickup che girano il filmato degli sgozzamenti in modo da alimentare la leggenda della barbarie.

Sono così i vecchi e nuovi fascismi e le loro leggende.